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Stephenie Meyer

Breaking Dawn

Questo libro è dedicato alla mia agente-ninja, Jodi Reamer.

Grazie per avermi tenuta lontana dai guai.

E grazie anche alla mia band preferita, I Muse, come si sono assai puntualmente chiamati, per aver fornito una valida ispirazione alla saga.

LIBRO PRIMO

Bella

L’infanzia non va dalla nascita a una certa età, quell’età in cui il bambino è cresciuto e mette da parte le cose infantili.

L’infanzia è il regno in cui nessuno muore.

Edna St. Vincent Millay

Prefazione

Già troppe volte avevo sfiorato la morte, ma non poteva diventare un’abitudine.

Eppure, affrontarla di nuovo sembrava stranamente inevitabile. Come fossi davvero destinata alla catastrofe. Le sfuggivo ogni volta, ma tornava sempre a cercarmi.

Questa, però, era una circostanza molto diversa dalle altre.

È facile scappare da qualcuno di cui hai paura, o tentare di combattere qualcuno che odi. Sapevo reagire nel modo giusto a un genere preciso di assassini: i mostri, i nemici.

Ma se ami chi ti sta uccidendo, non hai alternative. Come puoi scappare, come puoi combattere se così feriresti il tuo adorato? Se la vita è tutto ciò che hai da offrirgli, come fai a negargliela?

Se è qualcuno che ami davvero...

1

Fidanzata

Nessuno ti guarda, giurai a me stessa, davvero. Nessuno ti guarda. Nessuno ti guarda.

Però, siccome non riuscivo a mentire bene neanche a me stessa, decisi di controllare.

Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione?

Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto.

La mia auto. Uffa.

Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il signor Marshall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir. Almeno non schiacciava il naso contro il vetro. Non ancora.

Scattò il verde e nella fretta di fuggire affondai il piede sull’acceleratore senza pensarci, come avrei fatto al volante del mio decrepito Chevy.

Mentre il motore ringhiava come una pantera a caccia, l’auto schizzò in avanti così veloce che mi ritrovai incollata al sedile di pelle nera, con lo stomaco schiacciato sulla spina dorsale.

«Accidenti», ansimai mentre annaspavo alla ricerca del freno. Recuperata la calma, mi limitai a sfiorare il pedale. Uno scossone e l’auto tornò perfettamente immobile.

Non osai controllare le reazioni intorno a me. A quel punto non c’erano più dubbi su chi fosse al volante. Con la punta della scarpa abbassai il pedale dell’acceleratore di mezzo millimetro e di nuovo la macchina scattò in avanti.

Riuscii a raggiungere il traguardo: la stazione di servizio. Se non fossi stata in riserva non mi sarei nemmeno azzardata a tornare in città. Ormai pur di non apparire in pubblico facevo a meno di parecchie cose, compresi biscotti e stringhe delle scarpe.

Come fossi al gran premio, in pochi secondi aprii lo sportello, svitai il tappo, strisciai la carta di credito e infilai la pompa nel serbatoio. Ovviamente non potevo far nulla perché i numeri sul display accelerassero il passo. Ticchettavano pigri, quasi lo facessero apposta per infastidirmi.

Fuori non c’era un raggio di sole, il solito giorno piovigginoso di Forks, ma continuavo ad avere la sensazione di portarmi dietro un riflettore puntato sul delicato anello che brillava sulla mia mano sinistra. In momenti come quello, quando percepivo degli sguardi alle mie spalle, sentivo l’anello lampeggiare a mo’ d’insegna: «Guardatemi, guardatemi».

Era stupido essere tanto imbarazzata e lo sapevo. Esclusi papà e mamma, importava davvero ciò che la gente diceva del mio fidanzamento? Della mia nuova auto? Della mia misteriosa ammissione a un college d’élite? Della carta di credito nera e lucida che proprio in quel momento mi sentivo scottare nella tasca posteriore?

«Già, chi se ne importa di quello che pensano», mormorai a mezza voce.

«Ehm, signorina?», disse una voce maschile.

Mi voltai e me ne pentii all’istante.

Due uomini stavano accanto a un SUV ultimo modello, con un paio di kayak nuovi nuovi fissati al tetto. Nessuno dei due guardava me: erano ipnotizzati dall’auto.

Personalmente non riuscivo a capirli. Del resto, per me era già tanto saper distinguere fra i marchi Toyota, Ford e Chevrolet. L’auto era nera metallizzata, bella, tirata a lucido, ma per me restava una semplice automobile.

«Scusi se la disturbo, ma potrebbe dirmi che macchina è?», domandò il più alto dei due.

«Ehm, una Mercedes, giusto?».

«Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian. Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui».

Mentre con lo sguardo percorreva il profilo della mia auto — non mi sembrava tanto diversa da una qualsiasi Mercedes, ma che ne sapevo io? — considerai brevemente le mie difficoltà con parole come "fidanzato", "matrimonio", "marito" eccetera.

Faticavo a tenerle tutte insieme nella testa.

D’altra parte, mi avevano insegnato a rabbrividire di fronte all’idea di un abito bianco vaporoso con strascico e bouquet. Soprattutto, però, non riuscivo a conciliare un concetto serio, rispettabile e noioso come quello di "marito" con il mio concetto di "Edward". Era come far recitare a un arcangelo la parte di un ragioniere: non potevo immaginarlo in un ruolo tanto banale.

Come sempre, non appena iniziai a pensare a Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile.

«Non lo so», risposi sincera.

«Le dispiace se faccio una foto?».

Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?».

«Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno».

«Ehm. Okay, va bene».

Riposi svelta la pompa e sgusciai a nascondermi sul sedile anteriore mentre l’ammiratore estraeva dallo zaino un’enorme macchina fotografica professionale. A turno lui e l’amico si misero in posa davanti al cofano, e poi accanto alla coda.

«Quanto mi manca il mio pick-up», brontolai.

Con tempismo davvero perfetto, anzi, fin troppo, il pick-up aveva esalato l’ultimo respiro poche settimane dopo che io ed Edward avevamo raggiunto il nostro compromesso zoppicante, una clausola del quale gli concedeva di sostituire il mio automezzo in caso di dipartita dello stesso. Secondo Edward, avremmo dovuto aspettarcelo: infatti il Chevy, giunto al termine di una vita lunga e piena, era morto di vecchiaia. Questo a detta di Edward. Naturalmente mi era impossibile verificare la sua versione, o cercare di resuscitare da sola il pick-up. Il mio meccanico preferito...

Subito bloccai quel pensiero, decisa a non spingermi oltre. Meglio ascoltare le voci dei due uomini, attutite dalle pareti dell’abitacolo.

«...in rete, il video del tizio che l’attacca con il lanciafiamme. E non fa nemmeno un graffio alla vernice».