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Lloyd Biggle Jr.

Ai margini della Galassia

CAPITOLO I

Alle sue spalle una porta si aprì e si richiuse. Jef Forzon continuò a guardare i quadri. Coprivano tutta una parete della stanza, dal pavimento al soffitto.

Quadri stupendi.

La prima cosa da fare, pensò Forzon, era l’analisi chimica di quei colori. Non aveva mai visto niente di simile. Colori incantevoli, d’una materia sorprendente. Adoperati da grandi artisti (e la maggior parte dei quadri esposti era l’opera di grandi artisti) producevano un effetto dimensionale che gli dava il capogiro.

Non faceva meraviglia che l’Ente Relazioni Interplanetarie avesse richiesto l’invio urgente di un ufficiale della Sovrintendenza Culturale! Degli impiegati che non sapevano nemmeno pitturare bene le lettere delle scritte sulle porte e che sceglievano, per gli uffici, dei colori tutt’al più adatti alle tenebre di un mausoleo, non erano certamente tagliati per occuparsi di opere d’arte. Non sapevano nemmeno appendere un quadro.

Il comunicatore interno gracchiò. L’impiegata dell’ingresso disse freddamente:

«Ora il Coordinatore può ricevervi, signore.»

Forzon si alzò, indugiò ancora un attimo per un’ultima intensa occhiata ai dipinti, e la seguì. Amava profondamente il suo lavoro ma odiava le formalità burocratiche da superare per poterlo svolgere. Odiava pure le belle ragazze con uniformi maschili che sfoggiavano sorrisi di superiorità.

Il sorriso di quella ragazza tuttavia cessò subito e Forzon provò rimorso, accorgendosi di averla guardata storto. Avrebbe dovuto scusarsi. Forse quel sorriso di superiorità era l’unico di cui disponesse. E l’uniforme le era stata imposta. Almeno, lo sperava.

«Il personale della base non indossa mai gli abiti locali?» le chiese.

«Prego, signore?»

L’idea la colpì a tal punto che la porta le sfuggì di mano e sbatté in faccia a Forzon. La riaprì e Forzon seguì la ragazza nel corridoio. Passando, lesse le scritte sulle porte: Comando Squadra A, Comando Squadra B, poi una stanza senza indicazioni, che forse era destinata al suo Comando Sovrintendenza Culturale, nel qual caso avrebbe pitturato lui il nome sulla porta. Non aveva mai lavorato agli ordini di un altro organismo statale e quell’idea, a ogni passo che faceva e che lo avvicinava al Coordinatore, gli piaceva sempre meno.

«È contrario al regolamento?» chiese alla ragazza.

«Prego, signore?»

«Voglio dire, il fatto di indossare il costume indigeno» insistette Forzon, fissando con solida commiserazione maschile il taglio di capelli quasi da uomo. «Non è contrario al regolamento, non è vero?»

«No, signore… Ma il Coordinatore non lo gradisce.»

Il risentimento di Forzon per quel Coordinatore si stava rapidamente tramutando in vera antipatia. Pazienza non essergli venuto incontro all’arrivo, nel cuore della notte; ma avergli fatto fare più di un’ora di anticamera la mattina era imperdonabile. Non che gli fosse dispiaciuto, con tutti quei quadri da ammirare; ma era un gesto inutile.

La villania deliberata, da parte dell’ufficiale più elevato in grado di un pianeta, era già difficile da ingoiare. Se l’avesse accompagnata una tendenza alla tirannia spicciola, sarebbe stata intollerabile. Nella maggior parte dei comandi gli impiegati amavano indossare il costume locale.

Comunque, non era affar suo. Sbrigate le formalità al più presto, sarebbe uscito fra gli indigeni, dove era il suo posto.

L’accompagnatrice aprì un’altra porta, gli fece un cenno di saluto col capo e lo lasciò. Un’altra impiegata, dall’aspetto ugualmente austero, lo introdusse in un grande ufficio privato. Forzon si diresse con passo calmo verso Wern Rastadt, Coordinatore della delegazione Relazioni Interplanetarie sul pianeta Gurnil.

«Forzon, agli ordini» disse.

Queste parole non suscitarono alcuna espressione di piacere sul viso del Coordinatore Rastadt. Flaccido, grinzoso, con la bocca cascante, quel viso era negato alla gioia. Gli occhi, nonostante l’ardente vitalità, erano infossati nel grasso, la pelle rigonfia, malata. Un coraggioso parrucchiere aveva tentato d’imporre a quei radi capelli bianchi un taglio severamente militare. Era riuscito solo a mettere in mostra una vasta e rosea distesa di cuoio capelluto. Solo il mento aveva carattere: sporgeva energicamente, imprevisto monticello in uno squallido deserto. Le mani bianche e paffute erano appoggiate al tavolo a palmo in giù, come se stesse concentrando le sue forze per saltare addosso a Forzon.

Si vedeva benissimo che costui era invecchiato e ingrassato nel servizio, che non aveva approfittato della pensione volontaria e che si era arroccato in un incarico tranquillo dal quale, salvo nel caso di una topica colossale e della conseguente indagine amministrativa, solo la morte l’avrebbe separato. Forzon volse lo sguardo al motto incorniciato di nero, appeso alla parete dietro il Coordinatore, LA DEMOCRAZIA IMPOSTA DALL’ESTERNO È LA PIÙ GRAVE FORMA DI TIRANNIA, e trattenne un sorriso. Era la quinta volta, nella stessa mattinata, che quel motto gli cadeva sotto gli occhi.

Improvvisamente Rastadt, stringendo i pugni, lanciò a Forzon come una frustata: «Ho l’impressione che la Sovrintendenza Culturale non insegni ai suoi ufficiali come ci si presenta a rapporto da un superiore.»

Forzon disse senza scomporsi: «La superiorità è un mito, la Sovrintendenza Culturale lo ha dimostrato da tempo.»

I pugni di Rastadt si abbatterono sul tavolo. Si drizzò come una serpe, urtando la sua poltrona che si ribaltò sul pavimento. Si sporse in avanti e gli gridò in faccia: «Ora siete ai miei ordini e, perdio, dovete ricordarvene! Uscite dalla stanza e presentatevi di nuovo, correttamente!»

Forzon respinse a stento la voglia di divertirsi un po’ alle spalle di quell’odioso caporale; ma l’età e la posizione gli davano diritto a un minimo di rispetto, anche se il suo comportamento glielo negava. Forzon gettò le ,sue credenziali sul tavolo. Il Coordinatore le esaminò in silenzio.

Quando si decise a parlare la sua voce suonò stranamente sommessa. «Voi siete un… un intendente culturale di settore

«Così dicono.»

Il Coordinatore si voltò, rialzò con cura la sua poltrona e vi si lasciò cadere di peso. Forzon non aveva mai visto nessuno sgonfiarsi così rapidamente e così totalmente. Rastadt osservava Forzon senza batter ciglio, col viso flaccido a un tratto teso per l’incredulità.

Forzon valutava con distacco le qualità pittoriche dei suoi lineamenti enfiati. Erano poche. Un ritrattista che avesse dovuto estrarre del carattere da quel viso squallido sarebbe impazzito. Viceversa, un caricaturista si sarebbe divertito un mondo.

«Siete giovane» osservò Rastadt improvvisamente.

«Succede a tutti, una volta.»

«Che ordini avete avuto, per favore?»

«Mi hanno detto che li avrei trovati qui.»

«Qui?» Rastadt alzò vivamente il capo, le sue guance flaccide si contrassero, gli occhi si fecero stretti come due feritoie e diffidenti. «Io non ho ordini per voi.» Attese un attimo «Quindi, voi non sapete perché siete qui?»

«Per quale motivo sarei qui, o altrove, se non per mettere in piedi un rilievo culturale?»

«No.» Il Coordinatore scosse la testa con decisione. «No, Gurnil è tuttora classificato pianeta ostile. I rilievi culturali non sono ammessi sui pianeti ostili, lo sapete anche voi.»

«Il mio comando mi ha ordinato in servizio su questo pianeta» disse Forzon lentamente. «L’Ente Relazioni Interplanetarie ha confermato gli ordini, mi ha dato massima precedenza, e ha perfino disposto che un incrociatore spaziale deviasse di vari anni-luce dalla sua rotta per depormi alla vostra porta. Davvero mi volete dire che ho sbagliato indirizzo?»

Rastadt respinse verso Forzon le credenziali. «L’unica informazione che ho ricevuto è stata una breve comunicazione nella quale mi si annunciava che un uomo della SC era trasferito nell’organico dell’Ente, per prestare servizio su questo pianeta. La comunicazione non precisava né il grado, né il servizio. Ma non può trattarsi di rilievo culturale. Voi non siete più ufficiale della SC ma dell’ERI, altrimenti non sareste qui. Strano, però, che non abbiate ordini.»