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Sono tornato alla poltrona nell’atrio e mi sono rimesso a sedere, intorpidito. Mi sentivo privo del minimo rapporto con tutta la gente che si muoveva attorno a me. È questo che prova un fantasma? mi sono chiesto. Ho cercato di non guardare l’orologio. Ho tentato di immergermi in un sogno a occhi aperti, di staccarmi dal tempo 1. “E se stessi facendo tutto questo per niente?” continuavo a domandarmi. Mi sembrava che non sarei riuscito a sopravvivere.

A mezzogiorno meno un quarto sono rientrato nell’ufficio di Lawrence. Lei stava ancora lavorando. Non ho potuto insistere. Che diritto avevo di assillarla, anche se la mia mente urlava per il bisogno di agire?

A mezzogiorno e tre minuti. Marcie Buckley si è alzata e abbiamo lasciato l’ufficio.

Non so cosa ho detto; non ricordo le parole. Lei ha continuato a farmi domande sullo special. Le mie bugie sono state atrocemente trasparenti. Ho pregato che lei non sapesse niente del mondo della televisione; se sapeva qualcosa, avrebbe capito che raccontavo frottole. Le ho detto che mi aveva assunto la ABC ma le ho dato il nome di un produttore che lavora a Ironside per la NBC. Le ho dato il nome del mio agente come regista. Ho mentito dall’inizio alla fine, e male. Le mie scuse, signorina Buckley.

Poi, in qualche modo, sono riuscito a spostare su lei il centro del discorso, così ho potuto ascoltare, invece di mentire.

Mi ha detto che assumersi l’incarico di storico dell’hotel era una sua iniziativa; che non ne è mai esistito uno, che gli archivi dell’hotel sono in condizioni terribili, e che lei stava cercando di rimediare al problema. So che mi ha fatto un’ottima impressione. Ama l’hotel e vuole salvarne la storia; vuole contribuire a renderlo un monumento nazionale, non solo locale, come in effetti è.

Parlando, mi ha guidato nel seminterrato, fra quelle che sembravano catacombe sterminate, sino a un ufficio dove si è fatta consegnare delle chiavi da un uomo.

A quel punto, mi pareva che la mia testa appartenesse a qualcun altro. Sentivo i miei passi rimbombare sul pavimento di cemento, ma avevo l’impressione che fosse un altro a portare le mie scarpe. In quel periodo, credo di essere stato più vicino che mai alla follia. Non so perché lei non se ne sia accorta. Forse lo ha notato, ma è troppo cortese e non ne ha parlato.

All’inizio siamo finiti nel posto sbagliato. Ci siamo aggirati fra una serie di stanze che un tempo erano cisterne; nelle pareti erano state create aperture, per collegare fra loro i locali. — Volevano usarle per raccogliere l’acqua piovana. — Sono certo che lo abbia detto; la frase mi è rimasta impressa.

Poi abbiamo ripreso a camminare spediti, e lei mi ha raccontato dell’hotel. Ciò che ha detto è vago e frammentario nella mia memoria. Mi pare che abbia parlato della solidità strutturale delle travi portanti. Di un tunnel da qualche parte. Del fatto che ogni stanza dell’hotel ha un arredo diverso da tutte le altre; ma devo avere capito male. Di una stanza circolare in una torre dove una vecchia signora vive da sempre.

Alla fine, dopo sterminati corridoi nelle cantine, risalita una scala, attraversata la rumorosa cucina, le sale per i banchetti; dopo essere usciti, avere fatto il giro dell’hotel e avere superato un’altra porta, ci siamo trovati nel corridoio che sfocia nella saletta Principe di Galles, e lei si è fermata davanti a una porta color marrone, l’ha aperta.

Siamo entrati. La stanza era calda. C’erano sedie ammucchiate. Abbiamo dovuto spostarle per raggiungere un’altra porta. — Quest’altra stanza è caldissima — ha detto lei, aprendo la porta, accendendo una lampadina polverosa che pendeva dal soffitto. La stanza era circa tre metri per due, con un soffitto molto basso, pochi centimetri sopra la mia testa, attraversato da una ragnatela di tubi. La signorina Buckley aveva ragione sul caldo. Era incredibile; come entrare in un forno. — Quelli devono essere tubi del riscaldamento — ha detto. — È un posto osceno per conservare documenti importanti.

Mi sono guardato attorno. Le pareti erano in cemento, col bianco di calce ormai sbiadito. Da per tutto, scaffali colmi di libri; una pigna di libri su un tavolo. Libri immensi, alcuni con una base di cinquanta centimetri e quasi trenta d’altezza, spessi parecchi centimetri. Tutto era coperto da uno strato di polvere grigia come non ne ho mai visti in vita mia: la polvere di un solaio o una cantina lasciati indisturbati per generazioni.

— Sta cercando qualcosa in particolare? — ha chiesto lei.

— Non esattamente. — Un’altra bugia. — Solo il colore locale… Informazioni generali.

Lei si è fermata nella stanza accanto, e mi guardava. Io ho passato il pollice sui dorsi logori, in pelle rossa, dei libri. Il pollice è diventato grigio. Ho sollevato un pesante volume e una nube di polvere si è alzata in aria. Ho tossito, ho messo giù il libro. Il sudore mi scendeva già giù per il collo. Mi sono dato una pulita alle mani e ho tolto la giacca.

Lei pareva esitante, ma alla fine ha detto: — Io vado a mangiare qualcosa. Vuole restare qui intanto che pranzo?

— Se per lei va bene — ho risposto.

— Be’… — Ho capito che era preoccupata per i suoi documenti. — Mi raccomando, stia attento.

— Non abbia paura. — Ho imbastito un sorriso. — E le sono grato dell’aiuto, signorina Buckley. È stata molto gentile.

Lei ha annuito. — Non c’è problema.

Mi sono trovato solo, e l’ansia che avevo cercato di nascondere è saltata fuori di prepotenza. Ho cominciato a muovermi, respirando con la bocca. Dietro il tavolo c’erano scatole coperte. Mi sono accoccolato per togliere uno dei polverosi coperchi e ho visto dentro mucchi di conti e ricevute ingiallite, pesanti libri mastri. Ho messo giù il coperchio e mi sono rialzato; al movimento, la stanza è diventata scura ai miei occhi. Barcollando, mi sono aggrappato al tavolo, ho scosso la testa. Dopo essermi ripreso, ho estratto il fazzoletto e me lo sono passato sulla faccia.

Mi sono spostato da scaffale a scaffale, passando le dita sugli spessi dorsi dei libri. Tutto ciò che toccavo o in cui inciampavo faceva alzare una polvere grigia nell’aria. Ho continuato a schiarirmi la gola e a tossire. Ho sentito orribili tentacoli di dolore alla testa. Dovevo finire presto, o non ce l’avrei mai fatta.

Ho trovato un dorso datato 1896, incastrato tra due pesanti libri contabili, e l’ho tirato giù, boccheggiando alla polvere che si è coagulata attorno alla mia testa. Era una raccolta di copie carbone di lettere. L’ho sfogliata in fretta; forse poteva esserci qualcosa.

Molte pagine erano vuote, completamente sbiadite. Il mio cuore ha dato un tuffo quando ho visto una lettera datata 6 ottobre che iniziava con “Mia cara signorina McKenna.” Gocce di sudore mi sono scese negli occhi, facendoli bruciare. Li ho sfregati. Ho raccolto gocce di sudore dalle sopracciglia e le ho scrollate a terra. “È un grande piacere rispondere alla sua missiva del 30 settembre. Attendiamo con ansia il suo arrivo e la rappresentazione di Il piccolo ministro all’hotel.”

La lettera proseguiva dicendo che il direttore era spiacente di non aver potuto ospitare lo spettacolo nella stagione estiva, quando c’erano più ospiti all’hotel; ma “senza alcun dubbio preferiamo ospitarlo adesso piuttosto che rinunciarvi.”

Ho scrollato la testa. Mi sentivo quasi svenire. Mi sono asciugato di nuovo viso e collo. Il fazzoletto era praticamente fradicio. Il sudore mi colava giù per la schiena e sul petto. Ho dovuto trasferirmi nella stanza attigua per qualche attimo. Per quanto anche lì facesse caldo, il contrasto mi ha dato la sensazione di riemergere nell’aria fresca. Mi sono appoggiato alla parete di cemento, boccheggiante. Riuscivo a pensare una sola cosa: “Se lì non c’è… Se lì non c’è…”

Sono tornato nell’altro locale, ho cominciato a passare mani veloci, impazienti, sui dorsi dei volumi. “Avanti” borbottavo. Ho continuato a ripeterlo e ripeterlo come un bambino disperatamente testardo che non si permette di capire che ciò che vuole è irraggiungibile. “Avanti, avanti.” Grazie a Dio, Marcie Buckley non è tornata in quel momento. Se fosse riapparsa, si sarebbe sentita costretta a chiamare un medico, ne sono certo. Non ero più, per usare una pietosa frase di circostanza, nel “pieno controllo delle mie facoltà mentali”. Una sola, esile ancora mi impediva di scivolare del tutto nella pazzia: la cosa che cercavo.