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Ho dovuto concentrarmi su quella perché, ormai, ero furibondo con l’hotel, furibondo con tutti i suoi dirigenti del passato che avevano permesso a quei documenti di finire in uno stato simile. Se solo avessero provveduto ad archiviare il materiale nella maniera giusta, avrei ottenuto la mia risposta in pochi secondi. Invece, i minuti si trascinavano insopportabili mentre io proseguivo l’inutile ricerca dell’unica prova concreta che mi avrebbe permesso di sopravvivere. Mi sentivo come Jack Lemmon nella scena di I giorni del vino e delle rose in cui diventa una furia nella serra, in cerca di una bottiglia di whisky. Non saprò mai cosa mi abbia impedito di diventare una furia; il mio obiettivo, immagino. Senza quello, mi sarei messo a ululare e rantolare e scaraventare libri e carte in giro e piangere e bestemmiare e mi sarei trasformato in un povero demente.

A quel punto, non asciugavo nemmeno più il sudore. Che senso aveva? Il mio fazzoletto era fradicio; la biancheria intima mi si era incollata addosso come se mi fossi tuffato vestito in piscina. La mia faccia doveva essere di un rosso scarlatto. Avevo perso ogni cognizione del tempo e del luogo. Come un sonnambulo, cercavo e cercavo, sapendo che la mia ricerca era inutile, ma talmente preso della mia follia da non potermi fermare.

Per poco non mi è sfuggito. La mia vista non era quasi più a fuoco. Continuavo a prendere libri e metterli da parte. Ho messo da parte anche quello giusto. Poi qualcosa, Dio sa cosa, è penetrato nelle nebbie del mio cervello e, con un gemito ansante, sono tornato al volume, lo ho ripreso in mano. L’ho aperto, ho sfogliato le pagine con mano tremante, finché non ho rintracciato quella su cui era scritto, a enormi lettere rosse, GIOVEDÌ 19 NOVEMBRE 1896/HOTEL DEL CORONADO/DIRETTORE E. S. BABCOCK/CORONADO, CALIFORNIA.

Probabilmente, ero così disidratato e stordito che non sono riuscito, per quelli che mi sono parsi istanti eterni, a capire che la stessa data cade in un diverso giorno della settimana a seconda degli anni, con coincidenze periodiche. Ho fissato la pagina con stupefatta incredulità; poi, di colpo, rabbiosamente, me ne sono reso conto.

I miei occhi sono corsi alle colonne con le intestazioni “Nome, Residenza, Stanza, Ora;” le ho scorse in fretta. Non riuscivo più a leggere. Era tutto confuso. Mi sono passato sugli occhi una mano tremante. “E.C. Penn. Conrad Scherer e moglie” (ricordo di avere pensato che era una formula piuttosto strana). “K.B. Alexander, C.T. Laminy.” Ho fissato in assoluta confusione la sigla ID ripetuta varie volte nelle colonne. Solo adesso capisco che significava “Idem” e che all’epoca veniva usata al posto delle virgolette di cui ci serviamo oggi.

Ho letto tutta la pagina, fino in fondo, ma quello che cercavo non c’era. Devo avere emesso un gemito di dolore. Ho fissato l’inchiostro sbiadito del registro. L’odore della carta ammuffita e della polvere mi riempiva narici e polmoni. Esausto, ho voltato pagina e sono arrivato al 20 novembre 1896, venerdì.

E mi sono messo a piangere. Non piangevo più così da quando avevo dodici anni; non di tristezza, ma di gioia. Improvvisamente privo di forze, sono crollato a gambe incrociate sul pavimento, col pesante registro dell’hotel in grembo, con le lacrime che mi scendevano giù per le guance, mescolate ai rivoletti di sudore. I miei gemiti singhiozzanti erano l’unico suono nella stanza torrida come una fornace.

Era il terzo nome della lista.

“R.C. Collier, Los Angeles. Stanza 350. 9,18 a.m.”

L’una e ventisette del pomeriggio. Sdraiato a letto, invaso da un delizioso senso di attesa. Ho fatto la doccia, ho lavato via polvere e sporcizia e sudore; ho gettato i vestiti nel sacco della lavanderia. Per fortuna sono riuscito a chiudere a chiave la stanza usata come archivio e ad andarmene prima che Marcie Buckley tornasse. Ho telefonato al suo ufficio un po’ di tempo fa per ringraziarla di nuovo.

La tentazione (visto che mi sento così bene, così sicuro) è fare nulla. Restare qui e aspettare che accada l’inevitabile.

Eppure, nonostante tutte le rassicurazioni, intuisco che non c’è niente di inevitabile. Devo ancora fare in modo che accada. Sono assolutamente convinto che sia già stato fatto, ma dopo avere letto il libro di Priestley, sono anche convinto che esistano possibilità multiple non solo per il futuro ma anche per il passato.

Potrei ancora fallire.

Quindi, il mio lavoro non è finito. Anche se credo, al di là di ogni dubbio, che domani sera la vedrò interpretare Il piccolo ministro, credo anche di dovere fare notevoli sforzi per renderlo possibile.

Fra un po’ mi metterò all’opera. Per adesso, voglio crogiolarmi. Nel seminterrato, l’esperienza è stata orribile, finché non ho scoperto il registro dell’hotel col mio nome. Ho bisogno di riprendere le forze, prima di cominciare.

Chissà perché ho scritto “R.C. Collier.” Non ho mai scritto il mio nome in quel modo.

Mi sono anche chiesto se non sia il caso di trasferirmi alla stanza 350, ma ho deciso di no. Non so esattamente perché, ma non mi è parso giusto. E siccome devo affidarmi soprattutto alle sensazioni, sarà meglio che le segua.

È il 19 novembre 1896. Sei sdraiato a occhi chiusi sul tuo letto, rilassato, ed è il 19 novembre 1896. Nessuna tensione. Nessuno stress. Se senti suoni all’esterno, saranno le ruote di un carro, gli zoccoli di un cavallo. Niente di più; non sentirai nient’altro. Sei in pace, completamente in pace. È il 19 novembre 1896. 19 novembre 1896. Sei coricato su un letto dell’hotel del Coronado ed è il 19 novembre 1896. In questo momento, Elise McKenna e la sua compagnia si trovano nell’hotel. Si sta allestendo il palco per la rappresentazione di domani sera di Il piccolo ministro. È giovedì pomeriggio. Sei sdraiato sul letto nella tua stanza all’hotel del Coronado ed è giovedì pomeriggio, 19 novembre 1896. La tua mente accetta questo in maniera assoluta. Non ci sono dubbi, nella tua mente. È il 19 novembre 1896, giovedì, 19 novembre 1896. Tu sei Richard Collier. Trentasei anni. Sdraiato sul letto del tuo hotel, a occhi chiusi, il giovedì pomeriggio del 19 novembre 1896. 1896. 1896. Stanza 527. Hotel del Coronado. Giovedì pomeriggio, 19 novembre 1896. In questo stesso momento, Elise McKenna si trova nell’hotel. In questo stesso momento, sua madre si trova nell’hotel. Il suo impresario, William Fawcett Robinson, si trova nell’hotel in questo stesso momento. Adesso. In questo stesso momento. Qui, Elise McKenna. Tu. Elise McKenna e te. Tutti e due all’hotel del Coronado, in questo pomeriggio di giovedì 19 novembre 1896.

(Questa litania auto-ipnotica di mio fratello continua per l’equivalente di altre ventuno pagine.)

Adesso ho quarantacinque minuti registrati su cassetta. Mi rimetterò a letto, chiuderò gli occhi, e ascolterò.

Le due e quarantasei del pomeriggio. Mi sento più fiducioso che mai. È una strana sensazione che va al di là della logica, ma sono convinto che questa transizione si verificherà. La convinzione forma una corrente sotterranea di eccitazione, dietro la calma mentale che anche provo; la tranquillità di una sicurezza assoluta.

Sdraiato a letto per quei quarantacinque minuti, non so se mi sono addormentato o sono entrato in stato ipnotico o cosa. So solo che ho creduto a ciò che ascoltavo. Dopo un po’, era come se mi parlasse una voce diversa dalla mia. Una personalità disincarnata che mi dava istruzioni da una zona senza spazio, senza tempo. Ho creduto a quella voce senza riserve.