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Com’è la frase che ho letto tanti anni fa? Ne sono rimasto talmente colpito che, a un certo punto, ho pensato di farla incidere su un pezzo di legno da appendere alla parete del mio ufficio.

Sì, ricordo. “Ciò in cui credi diventa il tuo mondo.”

Coricato sul letto, ho creduto che la voce che udivo mi dicesse la verità e che io fossi sdraiato su questo letto, a occhi chiusi, non nel 1971 ma nel 1896.

Lo farò e lo rifarò finché quella convinzione non mi avrà penetrato in maniera talmente completa da trasportarmi letteralmente là, e allora mi alzerò e uscirò dalla stanza e andrò da Elise.

Tre e trentanove del pomeriggio. Fine di un’altra sessione. Risultati simili. Convinzione; pace; sicurezza. A un certo punto, ho addirittura provato la voglia di aprire gli occhi e guardarmi attorno per controllare se fossi ancora nella mia stanza.

Mi è appena venuta un’idea bizzarra.

E se, quando riaprirò gli occhi nel 1896, mi capitasse di vedere qualcun altro nella stanza con me, qualcuno che mi fissa stupefatto? Riuscirei ad affrontare la situazione? E se per caso (mio Dio!) una coppia sposata avesse appena cominciato a concedersi un “rapporto coniugale” e io apparissi all’improvviso nel letto con loro, probabilmente sopra o sotto uno dei due? Grottesco. Ma come posso evitarlo? Devo stare coricato sul letto. Forse potrei sdraiarmici sotto, come misura precauzionale, ma la scomodità inibirebbe la mia concentrazione mentale.

Dovrò correre il rischio, tutto qui. Non vedo alternative. La mia speranza, tenendo presente la lettera di Babcock a Elise, è che con la scarsità di clienti della stagione invernale, questa stanza non sia occupata.

In ogni caso, è un rischio che devo accettare. Di certo non permetterò a questo problema di mandare a monte il mio progetto.

Un breve periodo di riposo, poi una nuova immersione.

Quattro e trentasette del pomeriggio. Un problema; anzi, due: uno irrimediabile, l’altro con una speranza di soluzione.

Primo problema: il suono della mia voce, nel corso di questa terza sessione, ha cominciato a perdere il suo carattere astratto, è diventato più riconoscibile. Come mai? Dovrebbe farsi sempre più irriconoscibile ogni volta che lo ascolto, no?

Ma forse no. Forse la cosa è collegata al secondo problema, che è questo: anche se mentre ascoltavo la mia convinzione interiore è rimasta, ha però cominciato a svanire gradualmente perché non facevo altro che sentire e risentire le stesse parole, il che ha un notevole valore ipnotico, però non serve alla parte della mia mente che ha ancora come sovrana assoluta la logica. Alla fine, quell’area della mia mente si è decisa a formulare in maniera esplicita la domanda: è tutto qui quello che sai di quel giorno del novembre 1896?

Ci sono! Scenderò sotto e comprerò una copia del libro di Marcie Buckley in tabaccheria, lo leggerò in fretta, mi concentrerò sui dati di fatto che riguardano il 1896, poi registrerò un nuovo nastro di istruzioni da quarantacinque minuti, con prove più convincenti del fatto che io mi trovo qui il 19 novembre 1896; arricchirò la scena di maggiori particolari, per così dire.

Elise approverebbe.

Più tardi. Libro interessante. Be’, non esattamente un libro; Marcie sta lavorando alla versione lunga. Questo è più che altro un grosso opuscolo. Sessantaquattro pagine con disegni, capitoli sulla costruzione dell’hotel, una parte della sua storia e della storia di Coronado, fotografie dell’aspetto attuale e qualche immagine del passato, fotografie di celebrità che sono state ospiti dell’hotel (il principe di Galles, nientemeno), più commenti e schizzi dedicati al futuro che si prevede per l’hotel.

Ho raccolto elementi a sufficienza per arricchire le mie prossime istruzioni, che inizierò a registrare fra pochi minuti.

È giovedì 19 novembre 1896. Sei sdraiato sul tuo letto nella stanza 527, a occhi chiusi. Il sole è tramontato e adesso è buio. Sta scendendo la sera su questo giovedì all’hotel del Coronado, il giovedì 19 novembre 1896. Adesso nell’hotel stanno accendendo le luci. Gli impianti di illuminazione funzionano sia a elettricità che a gas, ma il gas non viene usato.

Proprio oggi, stanno installando un impianto di riscaldamento che sarà completato entro l’anno prossimo. Al momento, ogni stanza è riscaldata da un caminetto. Questa stanza, la 527, è riscaldata da un caminetto. In questo preciso momento, nel buio di questo giovedì 19 novembre 1896, di fronte a te c’è un camino col fuoco che arde. Le fiamme crepitano piano, trasmettono ondate di calore alla stanza, la illuminano della luce del fuoco.

Nelle loro stanze, altri ospiti si stanno vestendo per la cena nella sala della Corona. Elise McKenna si trova all’hotel in questo preciso momento; forse è in teatro, a controllare qualche particolare per la rappresentazione di Il piccolo ministro, prevista per domani sera; forse si sta cambiando d’abito nella sua stanza. Nell’hotel c’è sua madre. C’è anche il suo manager, William Fawcett Robinson. E c’è anche la sua compagnia. Tutte le loro stanze sono riscaldate da caminetti; come la mia, la stanza 527, in questa fine pomeriggio di giovedì 19 novembre 1896. Nella mia stanza c’è anche una cassaforte a parete.

Sei sdraiato tranquillo, in pace, a occhi chiusi, in questa stanza, il 19 novembre 1896. È il pomeriggio del 19 novembre 1896, giovedì. Presto ti alzerai e uscirai dalla stanza e incontrerai Elise McKenna. Presto aprirai gli occhi, in questo pomeriggio ormai buio del novembre 1896, e percorrerai il corridoio e scenderai a pianterreno e troverai Elise McKenna. Lei si trova nell’hotel. In questo stesso momento. Perché è il 19 novembre 1896. Il 19 novembre 1896. Il 19 novembre 1896.

(E così via, per altre venti pagine.)

Sei e quarantasette del pomeriggio. Mi sono fatto portare la cena in camera. Una zuppa, un sandwich. È stato un errore. Ero così preso dalla convinzione di trovarmi nel 1896, nonostante l’aspetto da 1971 della stanza, che l’ingresso del cameriere si è rivelato una stridente intrusione.

Non ci cadrò più. È stato un passo falso, ma non irrimediabile. Comprerò crackers, formaggio, eccetera, a pianterreno, e da adesso in poi mangerò in camera. Mi nutrirò di quello che basta a tenermi in piedi e continuerò col mio piano.

Un altro problema. A dire il vero, lo stesso di prima.

Il suono della mia voce.

Sta diventando una distrazione sempre maggiore. Per quanto la mia mente veleggi lontano, dentro di me so, in un nucleo di consapevolezza profonda refrattario a qualunque inganno, che quella che mi parla è la mìa voce. Non riesco a immaginare che altro potrei fare, ma è inquietante.

In qualche modo affronterò il problema, se dovesse sfuggirmi di mano. Forse non accadrà.

Penso sempre di più al fatto che, tornando indietro nel tempo, diventerò la causa della tragedia che segna questo volto: ho la sua fotografia di fronte a me, sullo scrittoio.

Ho il diritto di farle questo?

So di averlo già fatto. Però, in maniera sempre più spiccata, intuisco la presenza di una variabile nel passato come nel futuro. Non so perché abbia questa sensazione, ma è così. La sensazione di poter scegliere di non tornare, se lo volessi. Una sensazione molto intensa.

Ma perché dovrei non tornare indietro? Anche se sapessi (e non lo so) di poter avere solo pochi “momenti” con lei. Non tornare indietro, dopo tutto questo? Impensabile.

E sono assillato anche da altri pensieri. Pensieri sulle scelte che potrebbero rendere la situazione enormemente più complessa di quanto già non sia.