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Cosa diceva Priestley? Devo ricontrollare.

Ecco cosa dice nell’ultimo capitolo, intitolato Un solo uomo e un solo tempo.

Parla dei sogni di una donna russa, la contessa Toutschkoff, nel 1812. La contessa sognò, tre volte in una sola notte, che suo marito, generale dell’esercito, sarebbe morto in battaglia in un posto che si chiamava Borodino. Quando si svegliò e ne parlò al marito, non riuscirono nemmeno a trovare il luogo su un atlante.

Tre mesi più tardi, suo marito morì nella battaglia di Borodino.

Priestley parla poi di un altro sogno, fatto da una donna americana nel ventesimo secolo. Questa donna sognò che il figlio annegava in un corso d’acqua. Qualche mese più tardi, si trovò nello stesso identico posto che aveva sognato, col figlio vestito come nel sogno e sul punto di finire vittima delle stesse circostanze che in sogno portavano all’annegamento.

La donna si rese conto del parallelismo della situazione e salvò la vita al figlio, evitando la tragedia.

Priestley suggerisce che è la portata dell’evento a decidere se sia possibile alterarlo in qualche modo. Per portare alla battaglia di Borodino si stava accumulando una tale infinità di singoli dettagli che nulla avrebbe potuto interferire con un evento così complesso.

Invece, la morte per annegamento di un singolo bambino (a meno che, presumo, quel bambino non sia un Cesare o un Hitler) costituisce un evento di natura talmente secondaria che è possibile intervenire per cambiarlo.

Se questo è vero per gli eventi futuri, ritengo che le stesse considerazioni siano valide per gli eventi passati. Io sono stato nel 1896 e ho provocato un cambiamento nella vita di Elise McKenna. Ma questo cambiamento non ha avuto la grande portata storica della battaglia di Borodino. È stato, come la morte di un bambino, un avvenimento insignificante.

Allora, perché non dovrei riuscire a tornare indietro, come già ho fatto, però dandole soltanto gioia, invece di provocarle tristezza? Di certo quella tristezza non è stata scatenata dall’incontro con me, o da qualcosa che io le ho fatto; è sorta perché lei mi ha perso per colpa dello stesso fenomeno temporale che mi ha portato a lei. Lo so che sembra folle, ma io ci credo.

Credo anche che, quando giungerà il momento, sarò in grado di alterare quel particolare fenomeno.

Mi è venuta in mente un’altra soluzione!

Ignorerò la nuova serie di istruzioni. Se il suono della mia voce mi distrae, lo eliminerò. Scriverò istruzioni per il mio subconscio, venticinque, cinquanta, cento volte l’una. Nel farlo, ascolterò in cuffia la Nona di Mahler: sarà la fiamma della mia candela, il mio pendolo che oscilla mentre io scrivo al mio subconscio che oggi è il 19 novembre 1896.

Una correzione. Ascolterò solo il movimento finale della sinfonia.

Il movimento dove, come ha scritto Bruno Walter: “Mahler dà un pacifico addio al mondo”.

Lo userò anch’io per dare l’addio a questo mondo; al 1971.

Io, Richard Collier, mi trovo oggi, 19 novembre 1896, all’hotel del Coronado.

Io, Richard Collier, mi trovo oggi, 19 novembre 1896, all’hotel del Coronado.

Io, Richard Collier, mi trovo oggi, 19 novembre 1896, all’hotel del Coronado.

(Scritto cinquanta volte da Richard.)

Oggi è giovedì 19 novembre 1896.

Oggi è giovedì 19 novembre 1896.

(Scritto cento volte.)

Elise McKenna è nell’hotel in questo momento.

(Cento volte.)

Ogni attimo mi porta più vicino a Elise.

(Cento volte.)

Adesso è il 19 novembre 1896.

(Sessantuno volte.)

Nove e quarantasette di sera. È successo.

Non ricordo esattamente quando. Stavo scrivendo “Adesso è il 19 novembre 1896.” Avevo polso e braccio indolenziti. Mi pareva di essere avvolto da una nebbia. Intendo in senso letterale. Attorno a me si stava raccogliendo una nebbia. Sentivo l’“adagio” nella testa. Lo ascoltavo per l’ennesima volta. Vedevo la matita muoversi sul foglio. Pareva scrivesse da sola. Ogni rapporto fra la matita e me era svanito. Ne fissavo i movimenti, ipnotizzato.

Poi è successo. Un “tremolio.” Non so trovare un termine migliore. Avevo gli occhi aperti, ma dormivo. No, non dormivo. Ero finito da qualche parte. La musica si è interrotta, e per un attimo (un attimo distinto, inconfondibile) sono stato lì.

Nel 1896.

È successo talmente in fretta, che forse non è durato più di un battito di ciglia.

So che sembra folle e poco convincente. Lo sembra persino a me, mentre ascolto la mia voce che lo racconta. Eppure è successo. Ogni fibra del mio corpo sapeva che ero seduto qui, in questo identico posto, non nel 1971, ma nel 1896.

Dio, il suono stesso della mia voce quando dico “1971” mi fa rabbrividire. Ho la sensazione di essere tornato in gabbia. Prima, ero libero. In quell’istante miracoloso, la porta si è aperta e io sono uscito e sono stato libero.

Ho anche la sensazione che la colpa della brevità del fenomeno sia delle cuffie stereo, per quanto io ami la musica. Mi inorridisce pensare che in quel momento avevo le cuffie sulle orecchie, che mi hanno trattenuto.

Adesso che so che funziona, che il mio piano si è semplificato al livello della ripetizione, mi viene in mente un importantissimo particolare pratico.

Gli abiti.

Terribile (e lo dico sul serio) che per tutto questo tempo non mi sia mai venuto in mente che trovarmi nel 1896 con gli abiti che indosso ora potrebbe essere talmente disastroso da far naufragare l’intero progetto.

È chiaro che devo trovare qualcosa da indossare che sia adatto all’epoca.

Ma dove lo trovo? Domani è venerdì. Non so perché mi sono formato la convinzione che debba accadere domani. Però ho questa convinzione, e non intendo combatterla.

Il che, per quanto concerne gli abiti, lascia una sola possibilità.

Sto sfogliando le Pagine Gialle. Cerco una ditta che noleggi costumi. È chiaro che non ho il tempo di farmene preparare uno su misura. Peccato non averlo previsto. Ma come potevo? Solo oggi, nel primo pomeriggio, ho accettato la possibilità di raggiungere Elise. Ieri sera e stamattina parlavo ancora di illusione. Illusione! Dio, è incredibile.

Ne ho trovata una. La San Diego Costume Company, Settima Strada. Ci andrò domattina, come prima cosa.

Inutile continuare stasera. Potrebbe persino essere pericoloso. E se per caso mi ritrovassi nel passato con questa maledetta tuta addosso? Nel 1896, avrei un aspetto molto bizzarro, vestito così.

Domani. Domani è la grande giornata. Ne sono talmente convinto che sarei pronto a scommettere…

Non c’è bisogno di scommettere. Questo non è un gioco d’azzardo.

Domani, sarò con lei.

19 novembre 1971

Le cinque e due del mattino. Mi sto alzando. La tentazione sarebbe quella di non muovermi. Però mi devo muovere, mi devo alzare e…

Brillare di luce mia? Maledettamente improbabile. Però mi alzerò. Anche se dovessi cadere. Mi vestirò e… scenderò giù e andrò sulla spiaggia, all’aria aperta. Farò a pezzi questa emicrania.

Perché oggi è il giorno.

Non puoi vincere, testa. “Oggi è il giorno.”

Le otto e quarantatré del mattino. Sto andando a San Diego. Per l’ultima volta. Continuo a ripeterlo. Be’, questa volta è vero. Non avrò più bisogno di tornarci.

L’emicrania non è esattamente sparita, però non è tanto forte da impedirmi di guidare.

Strano come mi senta distaccato da tutto ciò che vedo intorno. È possibile che una parte di me sia già nel 1896, in attesa che arrivi il resto di me? Come è successo l’altro giorno, quando una parte di me è rimasta all’hotel mentre io andavo a San Diego?