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Certo, è possibile. Chi sono io per negare qualcosa, a questo punto?

Nove e ventisette del mattino. Ottima fortuna. Non c’era molto tra cui scegliere, ma un abito della Costume Company sembrava fatto apposta per me. Adesso è sulla sedia al mio fianco, avvolto nella carta velina e chiuso nella scatola. Spero che a Elise piaccia.

È nero. La giacca è quella che chiamano una finanziera. Mostruosamente lunga; mi arriva alle ginocchia, Gesù. Il commesso ha cercato di farmi scegliere una “giacca a coda di rondine”, ma con quel davanti così stretto e quelle due code che scendevano dietro, mi è parsa molto poco pratica.

I calzoni (i pantaloni, signore) sono piuttosto aderenti, con costure guarnite di passamani sui lati. Ho anche una camicia bianca a colletto alto, un panciotto beige a semplice petto coi risvolti, e una cravatta a forma di ottagono tenuta ferma da un nastro che si allaccia dietro il collo. Sembro proprio un figurino. Spero che sia tutto adatto all’epoca. Nello specchio, mi stava bene. Anche gli stivaletti, corti e neri.

Parlare col tizio della ditta dei costumi è stata un’esperienza piuttosto strana. Strana perché mi sentivo solo parzialmente lì. Mi ha chiesto perché volessi il costume. Gli ho detto che domani sera devo andare a un party in costume imperniato sul tema dell’ultimo decennio dell’Ottocento; il che, adesso che ci penso, non è del tutto falso. Gli ho detto che desideravo un aspetto il più autentico possibile.

Per quanto tempo avevo intenzione di noleggiarlo? Mi è venuta la tentazione di rispondergli: per settantacinque anni. Per il weekend, gli ho detto.

Stavo per lasciare San Diego quando mi è venuto in mente che, per quanto ben vestito, nel 1896 non avrei potuto pagarmi nemmeno una tazza di caffè. È incredibile che mi fosse sfuggita la necessità di avere con me un po’ di contanti, in attesa di trovare un impiego. Ma cosa pensavo? Di chiedere soldi a Elise? L’idea mi dà i brividi. Ciao, ti amo, puoi prestarmi venti dollari? Dio onnipotente.

Di nuovo, un colpo di fortuna. Il primo negozio di monete e francobolli in cui sono entrato aveva un’obbligazione pagabile in oro da venti dollari. Mi è costata sessanta dollari, ma mi sono ritenuto fortunatissimo ad averla trovata. L’uomo del negozio mi ha parlato di un’altra obbligazione da venti dollari che non è mai entrata in circolazione, e a me è venuta voglia di comperarla; poi il tizio mi ha detto che mi sarebbe costata sui seicento dollari.

È una banconota molto graziosa, con un ritratto del presidente Garfield sul diritto, sigillo rosso, e le parole VENTI DOLLARI/ IN/ MONETE D’ORO/ PAGABILI AL PORTATORE SU RICHIESTA. Sul rovescio c’è il disegno, color arancione vivo, di un’aquila che stringe delle frecce tra gli artigli.

Ho anche comperato un’obbligazione pagabile in argento da dieci dollari, in condizioni ragionevoli (mi è costata quarantacinque dollari), con un ritratto di Thomas A. Hendricks sul diritto (chissà chi era). Sia questa che l’altra sono notevolmente più grandi delle banconote dei nostri giorni, e ovviamente, per me avranno un valore molto maggiore dei loro equivalenti di oggi. Quindi, in fatto di soldi, dovrei essere in buone condizioni.

“In fatto di soldi.” Bah. Che modo di dire poco vittoriano.

Probabilmente avrei dovuto dedicare più tempo alla ricerca del denaro, soprattutto perché quello che lascerò qui non mi servirà a niente, ma ero ansioso di tornare all’hotel e cominciare. Il tempo corre.

Mentre tornavo, ho avuto una buona idea. Non c’è bisogno di mettere le cuffie stereo. Ascolterò il disco mentre me ne starò seduto sul letto, nel mio abito di fine Ottocento, a scrivere le mie istruzioni e attendere che il viaggio cominci.

Le dieci e due del mattino. Pronto a partire.

Sono talmente ansioso di iniziare che ho parcheggiato l’auto dietro l’hotel, per risparmiare tempo. Adesso ho fatto la doccia e mi sono rasato e pettinato. Immagino che la lunghezza dei miei capelli vada bene; ma se fosse sbagliata non potrei farci niente.

Ho tolto le etichette del negozio a giacca, panciotto, camicia e cravatta. Per due motivi. Uno, non voglio che qualcuno le veda nel 1896; sarebbe impossibile spiegarle. Cosa più importante, non voglio vederle nemmeno io. Una volta là, intendo scacciare dalla mente ogni ricordo del 1971. Ho persino raschiato via la scritta stampata all’interno degli stivali; anche un particolare così minimo potrebbe rovinare tutto. Niente calzini, niente biancheria intima; avrebbero un aspetto troppo moderno.

Allora è tutto pronto. Del presente non resta nulla che possa venire con me; nulla di cui ci si possa accorgere, intendo. Scriverò le istruzioni su fogli che terrò accanto a me sul letto, e non in grembo come prima. Sono certo che così, quando succederà, la matita cadrà sul letto. Non ci saranno cuffie a fermarmi. Sono pronto a un cambiamento istantaneo.

Tranne che nel cervello, è ovvio. A questo dovrò pensare quando arriverò.

Ma certo! Quando sarò arrivato, continuerò a scrivere istruzioni! Per rafforzare la mia posizione nel 1896. Per togliermi a livello mentale dal 1971, finché, lo prevedo chiaramente, non dimenticherò da dove sono arrivato e sarò totalmente, anima e corpo, un figlio del 1896. Mi sbarazzerò di tutto e…

Buon Dio! Avevo quasi dimenticato l’orologio!

Mi sento scosso.

Sarà meglio aspettare che l’impronta del cinturino svanisca dal polso. Metterò l’orologio nel cassetto del comodino, per non vederlo. Ho messo il telefono sotto il letto, la lampada del comodino nell’armadio, ho tolto la coperta; l’unica cosa che vedrò con la coda degli occhi saranno lenzuola bianche.

Per amore di coerenza, nelle mie istruzioni continuerò a fare riferimento al 19 novembre. La logica dell’idea è ancora più soddisfacente perché oggi è davvero il 19 novembre.

Vediamo un po’. Ho trascurato qualcosa? Qualunque cosa?

Non mi pare.

Faccio partire la musica.

Un’ultima occhiata in giro. Sto per lasciare tutto questo.

Oggi.

Le undici e quattordici. Di nuovo!

La stessa cosa, questa volta più lunga. Non solo un breve lampo, un minuscolo istante fra un battito di ciglia e l’altro. È durato di più. Forse solo pochi secondi, forse cinque o sei; però, date le circostanze, per me la cosa è stata significativa come se fosse durata secoli.

Il processo si è messo in movimento.

È successo alla terza ripetizione dell’adagio. Stavo scrivendo l’istruzione “Mi trovo in questa stanza il 19 novembre 1896”. Ero a metà della trentasettesima trascrizione della frase quando si è verificato il cambiamento. La parola “novembre” si interrompe dopo le prime quattro lettere, con un tratto di matita che scende dalla “e” e poi scompare.

Quindi posso calcolare quando è successo. Il movimento della sinfonia era quasi finito quando io sono riemerso qui. Di conseguenza, il fenomeno deve essersi verificato circa un’ora dopo l’inizio della sessione: l’adagio dura ventun minuti.

Molto più in fretta del primo risucchio.

Lo chiamo “risucchio” perché, per ora, mi sembra la descrizione migliore. È come se, in un istante, venissi attirato da un’altra parte. Dapprima c’è la sensazione di andare alla deriva, un’impressione sempre più forte di disorientamento. Sento la musica, ma per me non ha più significato. Fisso la punta della matita che si muove, ma è un fenomeno distaccato dal mio io. Non sono io a scrivere le parole che appaiono sulla carta; si scrivono da sé. Attorno a me comincia a raccogliersi una nebbia, finché la mia area di visibilità si riduce alla punta della matita. La musica assume un suono bizzarro, distorto, come se stessi diventando sordo. Poi si interrompe del tutto. No, sbagliato. Non è che la musica si fermi; è che io, di colpo, non sono più presente. So che la musica continua. È solo che io mi trovo da qualche altra parte, e la musica non giunge alle mie orecchie.