Ho chiuso la mano sul pomello della porta, l’ho girato, e ho tirato verso me. La porta non si è aperta. “È chiusa a chiave, ovvio” ho pensato, con un sorriso acido alla mia ingenuità nel non prevedere quel particolare. Ho abbassato la testa, in cerca dei mezzi per riaprirla.
Non ce n’era nemmeno uno.
Il problema era così inatteso che non sapevo come affrontarlo. Per l’ennesima volta, ero un neonato stupefatto e stordito.
Avevo percorso settantacinque anni a ritroso nel tempo per lasciarmi bloccare da una semplicissima serratura?
All’inizio, non mi sono reso conto di scuotere la testa. Ero consapevole solo di un incredulo pensiero: “Non è possibile.”
Però lo era. La situazione era chiara. L’uomo era uscito, aveva chiuso la stanza dall’esterno con la sua chiave, e aveva trasformato la camera nella mia prigione.
Non ho idea del tempo che ho trascorso a fissare la porta in totale paralisi, nell’attesa di una risposta, incapace di capire che non c’erano risposte. Alla fine, la verità è esplosa in me, e con un gemito di sgomento mi sono voltato e mi sono avviato, a passo rigido, nella stanza. Raggiunto il cassettone, ho aperto i cassetti a uno a uno (davanti ai miei occhi esplodevano tenebre ogni volta che dovevo chinarmi), nella disperata speranza che l’uomo avesse lasciato una seconda chiave.
Non l’aveva lasciata. Ancora peggio, non c’era niente che potesse servirmi per scassinare la serratura: né forbici, né limette per unghie, né un coltello. Niente di niente. Un altro gemito. Impossibile!
Quasi barcollando, sono corso alla finestra e ho guardato fuori. Niente scala antincendio. Con un nuovo gemito, ho scrutato il viale curvo sotto di me, i grandi prati verdi, i due campi da tennis col fondo in asfalto al posto di quello che era il lato nord del parcheggio. E persino nel mio stato, mi ha colto di sorpresa scoprire l’oceano a non più di una ventina di metri dal retro dell’hotel.
Ho fissato la spiaggia. Era immersa in un bagliore arancione, e la schiuma bianca vi si riversava sopra. Poi è apparsa una coppia con due bambini, e mi ha fatto sobbalzare. Vederli camminare sulla spiaggia mi ha mandato il cuore in gola: erano i primi esseri del 1896 che incontrassi. Poco tempo prima, nessuno di loro era vivo, a meno che i bambini non stessero trascorrendo i loro ultimi giorni. Adesso si muovevano sotto i miei occhi, in carne e ossa. Se, prima di quel momento, avevo ancora il minimo dubbio su dove mi trovassi, per dirmi in maniera estremamente chiara che il 1971 era lontanissimo sarebbero bastati il cappello a cilindro e il bastone dell’uomo, la cuffia e la gonna lunga fino alle caviglie della donna, gli abiti dei bambini.
Mi sono girato con uno strillo risentito. Assurdo! Dovevo trovare Elise! Ho barcollato fino alla porta, ho girato il pomolo strattonandolo furiosamente. Stordito dallo sforzo, sono stato costretto ad appoggiarmi al legno scuro della porta, a premervi contro la fronte. Chiaramente, ero troppo debilitato per trovare una via d’uscita. Scoraggiato, mi sono messo a colpire la porta col taglio della mano destra stretta a pugno, nella speranza che in corridoio potesse esserci un inserviente che mi lasciasse uscire.
Non è arrivato nessuno. Ho cominciato a rabbrividire e, per quasi un minuto, ho temuto di perdere il controllò. Quegli ultimi sviluppi della situazione erano troppo folli. Se avessi atteso il ritorno dell’uomo, di certo lui avrebbe informato la direzione dell’hotel. Forse sarei riuscito a scappare, ma mi avrebbero acciuffato non appena mi fossi messo in cerca di Elise. Ci sarebbe stato un interrogatorio, l’arresto, forse la prigione. “Dio!” Finire in carcere dopo tutto quello che avevo passato!
Mi sono girato, colpito all’improvviso da un’idea nata senza dubbio dalla disperazione. La prima idea costruttiva che riuscissi a formulare da quando ero arrivato nel 1896. Ho raggiunto a passi incerti il cassettone e raccolto il rasoio col manico d’avorio. Tornato alla porta, ho estratto la lama e mi sono messo a tagliuzzare lo stipite all’altezza della serratura. “Il cielo mi aiuti se l’uomo dovesse tornare in questo momento” ho pensato. Ma non ho lasciato che il rischio mi fermasse; ho continuato a lacerare il legno con la lama, tagliandolo a strisce, dando strattoni periodici alla porta per controllare se cedesse. Ho ignorato le ombre che mi pulsavano negli occhi. Dovevo trovare Elise. Nient’altro aveva importanza.
Qualche minuto più tardi, con un frastuono assordante, ho staccato la porta dai cardini e ho sporto la testa in corridoio. Avevo il cuore in gola. Non c’era nessuno. Mi sono girato a guardare i trucioli sul tappeto. In un primo momento, l’uomo avrebbe pensato di essere stato derubato.
Mi sono girato e ho scaraventato via il rasoio; è rimbalzato sul materasso e caduto sul tappeto. “Pover’uomo” ho pensato, con un sorriso colpevole, mentre chiudevo la porta. Non avrebbe mai risolto il mistero; nessuno lo avrebbe risolto. Qualcuno aveva scardinato la porta per “uscire” dalla stanza? L’assurdità della situazione, degna di John Dickson Carr, mi ha quasi spinto a ridere, mentre mi avviavo in corridoio. Clienti e personale avrebbero discusso l’enigma per parecchio tempo.
Con un senso di premonizione, mi sono reso conto di avere già imposto la mia presenza al 1896, provocando danni fisici e creando un problema irresolubile. Mi sono chiesto se tutto ciò mi fosse “permesso.”
Dovevo lasciare perdere quella preoccupazione; non potevo fare assolutamente nulla. Dovevo trovare Elise, e quella sarebbe stata la mia unica preoccupazione.
Uscendo dalla stanza, non mi ero diretto a destra. Non so perché; sarebbe stato il percorso più semplice. Forse temevo di entrare in contatto con altra gente troppo presto. Doveva esserci un addetto all’ascensore, se ovviamente c’era l’ascensore. Ma se anche non ci fosse stato, e io tossi sceso per la scala, era probabile che mi imbattessi in qualcuno nel patio. Per motivi ignoti, l’idea di trovarmi vicino a esseri umani mi innervosiva. Volevo rimandare l’incontro il più a lungo possibile.
“È questo che provano gli spettri?” mi sono chiesto. La paura di accostarsi alle persone, perché potrebbero non vederli, e loro perderebbero la fragile illusione di essere ancora vivi? Anche l’apparizione della coppia coi figli sulla spiaggia mi aveva turbato. È una cosa trovarsi in una stanza a guardare mobili e oggetti che parlano chiaramente di una certa epoca. È tutt’altro trovarsi in presenza di esseri viventi di quell’epoca. Mi sono chiesto come avrei reagito la prima volta che mi fosse capitato di dover parlare con uno di loro, di guardarlo negli occhi, di avvertire la sua vera, concreta vicinanza.
Come avrei reagito trovandomi in presenza di “Elise?”
Le pareti dello stretto corridoio erano un ammasso confuso. Mi pareva di camminare in sogno. Mi sarei perso di nuovo, come quel giorno? “Quale giorno?” La domanda mi ha colto alla sprovvista, sfidando la mia logica. Non esisteva risposta. Nei ricordi, quel giorno apparteneva al passato. Adesso, però, io appartenevo a un passato molto più remoto.
Ho respinto la contraddizione prima che potesse disorientare la mia mente. Quando ho superato una manica antincendio appesa alla parete, l’ho toccata, per verificare l’esistenza dell’oggetto, e la mia. Era quello il presente da cui dovevano nascere progetti e ricordi. Ho guardato la botte chiusa da un coperchio, i secchi e le asce attaccate alla parete. Ricordo di essermi chiesto: “Perché sono qui?” Il mattino, quando mi ero svegliato, c’erano le bocche dell’impianto antincendio sul soffitto.
“Lascia perdere” mi sono detto. Era già abbastanza difficile sentirsi una persona vera in un posto vero; dovevo concentrarmi solo su quello. Quando ho superato uno specchio dagli ornamenti barocchi appeso al muro, è stato un sollievo scoprire la solidità della mia immagine.