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Assalito dal gelo e dalla stanchezza, mi sono fermato, chiedendomi se avessi la forza necessaria. Mai mi era stato più chiaro che raggiungere un altro tempo è infinitamente meno difficile dell’adattarsi a quel tempo.

Però “dovevo” adattarmi. Non potevo permettermi di arrendermi adesso, quando Elise era lontana solo pochi minuti. Stringendo la ringhiera con tutta la mia saldezza, ho ripreso a scendere. Il pulsare del 1896 mi avvolgeva, mi intimava di adeguarmi al suo ritmo ignoto, se non volevo rischiare di perdere per sempre quel tempo.

Mi sono arrestato sull’ultimo pianerottolo e ho scrutato quello che sembrava un salotto. Nella parete alla mia destra si apriva un caminetto, col carbone che ardeva sulla graticola. Attorno erano disposte una tavola coperta da una tovaglia e quattro sedie dall’aria fragile. Ho fissato quegli oggetti almeno per un minuto, rimandando l’impatto col diluvio di suoni e cose che, lo sapevo benissimo, mi aspettavano sotto.

Alla fine, d’impulso, mi sono voltato e diretto verso il piano rialzato al di sopra dell’atrio.

Senza dubbio si è trattato solo di una coincidenza, ma quando mi sono trovato a metà strada, le luci dell’atrio si sono accese. Boccheggiando, mi sono fermato e ho chiuso gli occhi. “Calma, calma” mi sono detto; o forse ho implorato, non so bene.

Un ronzio proveniente da destra mi ha fatto sobbalzare. Riaperti gli occhi, ho guardato in quella direzione. L’ascensore a forma di gabbia stava scendendo nel suo pozzo nero, in metallo lavorato.

Ho fissato la coppia all’interno. I due si sono trovati al mio livello visivo per un solo attimo, ma il ricordo è nitidamente scolpito nella mia memoria: lui in un lungo soprabito a doppio petto, col bavero e i risvolti di pelliccia, il cappello nero e lucido premuto contro il petto; lei con un lungo mantello di pelliccia, un delizioso cappellino sistemato sulla testa, e i capelli color rosso scuro fermati in una crocchia sotto la nuca.

Nell’istante di una breve occhiata, quei due sono diventati per me l’epitome della grazia e dell’eleganza del periodo che avevo raggiunto. Il fatto che non si siano degnati di rispondere al mio sguardo è servito soltanto a rafforzare l’impressione. Mentre l’ascensore raggiungeva l’atrio e si fermava, io mi sono avvicinato alla ringhiera per guardarli uscire, l’uno dopo l’altro. La destra della donna si è posata sul braccio sinistro dell’uomo, quando lui le si è portato a fianco. Li ho scrutati con un senso di meraviglia, li ho visti scivolare verso la porta d’ingresso con serena raffinatezza. Come esseri umani, forse erano mostri, ma come simboli del loro tempo e del loro rango erano perfetti.

Poi, giratomi, sono tornato alla scala e ho preso a scendere verso l’atrio.

La mia prima impressione è stata di delusione: l’atrio non era sontuoso come avevo immaginato. Nell’illuminazione troppo severa, appariva quasi sciatto rispetto all’atrio che avevo visto nel 1971. Il lampadario era spoglio, con paralumi arcuati in vetro bianco. Niente poltrone e divani in pelle rossa; al loro posto c’erano sedie e un divano di legno o vimini, vasi di palme, tavoli quadrati, rotondi e rettangolari, e (la cosa mi ha davvero stupito) lucide sputacchiere disseminate in diversi punti strategici.

Il bureau della reception, anziché trovarsi dove era prima, era sistemato alla destra dell’ascensore, dove prima (o dovrei dire dopo?) sorgevano un ampio spazio aperto e la vetrina della tabaccheria. Dove prima c’era il bureau ho visto un banco, sopra il quale era appesa un’insegna con la scritta Western Union Telegraph Office, e accanto al banco una via di mezzo fra edicola e negozio di articoli da regalo, con una vetrinetta in cui erano esposti diversi oggetti. Dietro l’angolo dell’edicola, una porta aperta con una tenda a frange; oltre la tenda ho intravisto quello che doveva essere un tavolo da biliardo.

Inoltre, a quell’atrio mancava del tutto l’impressione di silenzio ovattato: il pavimento non era a moquette, ma a parquet, e scarpe e stivali di clienti e dipendenti dell’hotel rimbombavano pesantemente sulle assicelle di legno, sotto l’alta volta del soffitto.

Mi è occorso uno sforzo considerevole per costringermi ad attraversare l’atrio, superando innumerevoli persone. Ho annullato ogni percezione del loro sesso e del loro aspetto fisico, perché intuivo che la mia unica possibilità di adattarmi stava nell’ignorare la massa di particolari animati e inanimati che mi circondavano. Dovevo affrontare una cosa alla volta.

Il mio aspetto doveva ancora essere notevolmente pallido e stordito; mi è stato più che chiaro dal modo in cui mi sono visto scrutare dall’impiegato della reception, un uomo coi baffi a manubrio, in un severo abito nero. Per quanto mi è stato possibile, ho cercato di ricompormi mentre mi avvicinavo.

— Signore? — ha chiesto l’uomo.

Ho deglutito, accorgendomi per la prima volta di essere terribilmente assetato. — Potrebbe dirmi… — ho cominciato. Ma prima di completare la frase, sono stato costretto a tossire e deglutire un’altra volta. — Potrebbe dirmi per favore qual è la stanza della signorina McKenna?

Con un improvviso fremito di orrore, ho immaginato che l’impiegato mi rispondesse che non c’era nessuna persona con quel nome all’hotel. Dopo tutto, come potevo sapere che la data fosse davvero il 19 novembre, o il 20? Poteva benissimo essere qualche altro giorno, o addirittura (Dio!) un altro “anno.”

— Posso chiederle perché desidera saperlo, signore? — ha ribattuto lui. La domanda era formalmente cortese, ma il tono di sospetto era più che evidente. Un altro ostacolo imprevisto. Era ovvio che non potessero dare al primo venuto il numero di stanza di una donna tanto conosciuta.

Ho improvvisato. — Sono suo cugino — ho risposto. — Sono appena arrivato. Alloggio alla stanza 527. — Un’altra fitta di paura. All’uomo sarebbe bastato controllare il registro per scoprire che mentivo.

— La signorina la attende, signore?

— No — mi sono sentito rispondere, subito contento della bugia; qualunque altra risposta avrebbe provocato ulteriori complicazioni. — Sa che sono in California, e le ho scritto che avrei cercato di essere presente al debutto di stasera… È “stasera”, vero? — ho aggiunto, sforzandomi di mantenere un tono indifferente.

— No, signore. Domani sera.

Ho annuito. — Ah.

Non ho idea di quanto tempo siamo rimasti a scrutarci. Forse solo pochi secondi, anche se a me sono parse ore. Quando l’uomo ha risposto, il mio stomaco era tutto un nodo, e non l’ho nemmeno sentito. Ho dovuto mormorare, strizzando le palpebre: — Pardon?

— Ho detto che la farò accompagnare alla stanza della signorina da un fattorino — ha detto lui.

“La stanza della signorina.” Quelle parole mi hanno dato i brividi.

— Non sta bene, signore? — ha chiesto l’impiegato.

— Mi ha un po’ stancato il viaggio in treno — ho risposto.

— Vedo. — L’uomo ha annuito, poi mi ha fatto sobbalzare sollevando all’improvviso la destra e schioccando le dita. — “George” — ha detto. Schioccava anche la sua voce.

Un uomo basso, tozzo, è entrato nel campo visivo che mi ero concesso. La mia attenzione si è fermata sull’uniforme scura abbottonata fino al collo. — Sì, signor Rollins — ha detto.

— Accompagna questo signore alla stanza della signorina McKenna — ha ordinato l’impiegato. Dal suo tono ho dedotto una seconda, implicita istruzione; “E resta con lui per accertarti che non ci siano problemi.” Forse era solo la mia immaginazione; però avrebbe potuto dirmi il numero della stanza, anziché assegnarmi una scorta.

— Sì, signor Rollins — ha risposto il fattorino. Non era affatto giovane; doveva avere, con ogni probabilità, più di cinquant’anni. Mi ha guardato e ha fatto un cenno. — Da questa parte, signore.

Il mi sono avviato alle sue spalle” in un corridoio laterale, cercando di ignorare le discrepanze coi miei ricordi, ma in realtà incapace di farlo. Dove prima c’era la tabaccheria ho visto una sala di lettura. Dove c’era la toilette per uomini ho visto quella che mi è parsa, dall’affollamento di individui con pipa e sigaro, una sala per fumatori. E dove prima sorgeva il salone vittoriano, ho visto un locale di cui non ho capito la funzione: c’erano diversi uomini e donne, seduti a chiacchierare.