Il mio cuore ha accelerato i battiti quando ho guardato verso la porta della sala da ballo. In quella stanza, a pochi metri da me, in quel precìso momento, stavano allestendo il palco (o lo avevano già allestito). Ho inspirato a ritmo convulso scoprendo il cartellone appoggiato su un cavalletto alla destra della porta. Come in sogno, ne ho letto il testo. “LA FAMOSA ATTRICE AMERICANA / ELISE MCKENNA / INTERPRETERÀ IL PICCOLO MINISTRO / DI J.M. BARRIE / VENERDÌ 20 NOVEMBRE 1896 / ALLE 20,30”.
Mi tremava la voce quando ho chiesto al fattorino: — È possibile che Elise sia lì dentro a provare?
— No, signore. Al momento lì non c’è nessuno, salvo forse un inserviente o due.
Ho annuito. Cosa avrei fatto, se ci fosse stata “lei?” Sarei entrato e l’avrei avvicinata? Che parole avrei usato? “Come sta, signorina McKenna? Ho percorso settantacinque anni per conoscerla…” Dio del cielo. Il solo immaginare frasi del genere mi torceva le viscere.
La verità era che non riuscivo a immaginare di parlare con lei, faccia a faccia. Eppure doveva esserci un primo scambio di parole, una frase d’inizio. Di nuovo, non avevo pensato a prepararmi. Totalmente preso dalla preoccupazione di raggiungerla, non avevo mai riflettuto su cosa le avrei detto una volta giunto lì.
A quel punto seguivo il fattorino sul pavimento in legno di una veranda coperta. Guardando alla mia sinistra, oltre le strette finestre, vedevo non la piscina o i campi da tennis, ma un viale circa tre metri più sotto, e diverse, strette terrazze ancora più giù, collegate al viale da brevi rampe di scale. Ed era sempre stupefacente scoprire quanto fosse vicino l’oceano. In caso di tempesta, senza dubbio le onde avrebbero coperto di schiuma i vetri della veranda.
Mentre superavamo un ampio ingresso che si apriva su una scala che scendeva al viale, ho guardato oltre i vetri di una porta e ho visto tre figure dirigersi, fianco a fianco, verso l’hotel. Indossavano cappe e cappelli, e il loro sesso era indecifrabile nel bagliore accecante del sole.
Ho strizzato le palpebre per rimettere a fuoco la vista. Il fattorino si è diretto a destra. Abbiamo percorso un breve corridoio che conduceva al patio. Lo spettacolo che mi si è parato di fronte mi ha tolto il respiro. — C’è qualcosa che non va, signore? — ha chiesto l’inserviente, fermandosi a guardarmi.
Io ho tentato di dare una risposta coerente. — La vegetazione del patio è splendida.
— Il patio, signore?
Sono rimasto a fissarlo.
— Noi lo chiamiamo cortile aperto — ha detto lui.
Alle sue spalle, mi sono incamminato lungo il lato ovest del cortile aperto. Nonostante le ovvie differenze nella luce e nella struttura del paesaggio, ciò che mi ha colpito di più è stato il senso di immutabilità dell’ambiente. Forse era solo colpa dell’imponente incombere dell’hotel tutt’attorno a me; non ne ero certo. Ho tentato di analizzare la sensazione, ma è stato inutile. La consapevolezza di avvicinarmi sempre più a Elise a ogni passo ha cancellato tutto il resto dalla mia mente. Nel giro di pochi minuti, forse di qualche secondo, mi sarei trovato di fronte a lei.
“E cosa le avrei detto?”
Il mio cervello non sapeva rispondere alla domanda. Il massimo che mi venisse in mente era: — Potrei parlarle, signorina McKenna? — Dopo di che c’era il vuoto. Persino l’idea di pronunciare quelle parole mi gelava il sangue. Com’era possibile che lei accogliesse favorevolmente un esordio tanto banale, da parte di un perfetto sconosciuto?
A quel punto, l’immaginazione é intervenuta con influenza distruttiva sulla mia mente già disastrata. Senza dubbio, lei doveva essere stanca per le prove, nervosa, forse irritabile. E se le prove fossero andate male? Se avesse litigato con Robinson o con sua madre? Nuovamente stordito, mi sono visto assalire da una moltitudine di ostacoli che si formavano nei miei pensieri; e ognuno di quegli ostacoli mi rendeva impossibile pronunciare più di qualche goffa parola prima che lei si scusasse, mi chiudesse in faccia la porta della sua stanza, e svanisse per sempre dalla mia vita.
Una volta, quando avevo otto anni, mi sono perso a Coney Island. L’emozione che sentivo in quel momento, avvicinandomi alla stanza di Elise, era identica a quella che avevo provato da bambino: ansia cieca, un terrore quasi del tutto irrazionale, il sistema nervoso sull’orlo del panico. Poco è mancato che fuggissi. Con quale coraggio osavo affrontare Elise? Superare tutti quegli anni solo per balbettare parole incerte e sprecare l’occasione sarebbe stato un disastro. Disperato, ho tentato di aggrapparmi al ricordo di ciò che avevo letto: nel corso del suo soggiorno all’hotel, lei aveva incontrato qualcuno, qualcuno che…
Mi sono bloccato, immobilizzato. Il mio cuore batteva così forte da darmi l’impressione che un pazzo stesse sferrando colpi con un ariete dall’interno del mio petto.
“E se lei avesse già incontrato quel qualcuno? Se fosse stata con lui?”
Il fattorino non si è accorto che mi ero fermato. Più avanti di me di diversi metri, ha svoltato a sinistra oltre una porta ed è scomparso. Io sono rimasto immobile, trafitto dal dolore fisico dei battiti del cuore; ho immaginalo che lei mi aprisse la porta e io intravvedessi un uomo nella sua stanza. L’uomo di cui avevo letto, il suo “scandalo del Coronado”. L’uomo che mi ero illuso di essere, ingannando la mia mente al punto di arrivare ad aggirare il tempo stesso per raggiungere Elise.
Il fattorino è riapparso, con un’espressione interrogativa in volto. Io ho stretto i denti, ho tirato il fiato. — Stavo guardando il cortile — ho borbottato. Non sapevo nemmeno se la mia voce tosse udibile; ma se lo era, la bugia doveva essere atrocemente ovvia.
L’uomo si è limitato ad annuire, dicendo: — Sì, signore. — Poi mi ha indicato il vano della porta. — Da questa parte, signore.
Ho ripreso ad avanzare, rigido e barcollante come un centenario. Di nuovo, tutte le speranze mi apparivano inutili. Proseguivo solo perché non avevo il coraggio di indietreggiare.
Siamo entrati in un salotto comune che si apriva su quattro camere da letto. Annichilito dall’enormità di ciò che stavo per affrontare, non ho notato nulla dei mobili, dell’arredo. Il mio cuore batteva lento e pesante; avvertivo una pulsazione alle tempie; mi sono chiesto, in maniera distaccata, se non stessi per svenire. Una parte della mia mente, del tutto indifferente, mi ha suggerito che, forse, svenire era il modo migliore di presentarmi a Elise.
Il fattorino si è fermato davanti a una delle porte, e io ho visto una grossa targa ovale col numero 41 inciso sulla superficie di metallo. Ho sobbalzato mentre lui batteva sulla porta con le nocche della destra; ho sentito il pavimento cominciare a ondeggiare sotto di me, ho visto le pareti assumere un aspetto gelatinoso. “Ci siamo” mi ha informato una voce interiore, calmissima. Mi sono proteso in avanti, ho appoggiato il palmo della mano al muro.
E per poco non mi ha preso un colpo, alla lettera, quando una stridula voce femminile ha chiesto alle nostre spalle: — Cercate la signorina McKenna?
Mi sono girato boccheggiando, ho quasi perso l’equilibrio, e di nuovo ho cercato il sostegno della parete. Una ragazza grassoccia ci stava studiando. È strano, ma nei momenti più sconvolgenti il nostro cervello registra particolari insignificanti. L’unico dettaglio che sono riuscito a notare in lei erano le labbra screpolate.
— Sì. C’è? — ha chiesto il fattorino.