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A quel punto, la mia sensazione del tempo è diventata vaga. Proprio non so ricordare quanto ne sia trascorso. Rammento solo particolari insignificanti della conversazione, e scarsissimi dettagli della cena.

Elise ha mangiato poco, come me: un consommé, mezza fetta di pane. Ha bevuto un po’ di vino rosso. Credo mangi sempre in maniera spartana, prima di una recita. Forse l’ho letto da qualche parte.

Robinson e la signora McKenna hanno più che rimediato al suo scarso appetito. È stato, penso, lo spettacolo dei due all’opera sulle rispettive cene a dare il colpo di grazia al mio fisico, e alla mia pazienza.

Robinson, in particolare, mi ha steso al tappeto. Mangiava con un gusto che si può definire solo “carnale”. Sono stato a un passo dalla nausea, vedendolo riempirsi la bocca di cibo che masticava avidamente. Distogliere gli occhi è servito a risparmiarmi lo spettacolo del suo implacabile appetito; ma i suoni che produceva erano fortissimi. Ho dovuto fare sforzi enormi per non balzare in piedi e lanciarmi dalla finestra. Solo adesso riesco ad apprezzare l’essenza tragicomica della scena. De’, bellezza, de’, romanticismo; de’, dolce idillio di una divorante passione. Il mio stomaco che ribolliva come un pozzo di lava mentre loro mangiavano e conversavano; conversavano e mangiavano; mangiavano e mangiavano. Mangiavano. Elise non ha detto niente. Io non ho detto niente. Lei sorseggiava vino e consommé e sembrava a disagio. Io sorseggiavo il consommé e mordicchiavo il pane tostato e mi sentivo praticamente finito.

A un certo punto, Robinson mi ha fatto entrare nella sua conversazione con la signora McKenna; o meglio, mi ha di nuovo messo alla graticola. “Lei sa sparare?” ha chiesto, dopo avere accennato alla caccia nella zona di Coronado. Quando io ho scosso la testa, ha detto: — Peccato. A quanto mi hanno raccontato, qui c’è abbondanza di pivieri, e non mancano nemmeno beccaccini e chiurli… E ci sono anche oche colombaccio. — (Giuro che ha detto proprio così.)

— Prospettiva eccitante — ho commentato. Non avevo intenzione di prenderlo in giro, ma il tono è stato quello. Robinson ha aggrottato la fronte alla mia ironia, ma il sorriso soffocato di Elise è stato, se non altro, un momentaneo sollievo.

In quella, il sindaco di San Diego (un certo Carlson, mi pare) si è avvicinato al tavolo per presentarsi e dare il benvenuto della città a Elise. Mi è sembrato terribilmente giovane, nonostante i baffi a manubrio. La sua stretta di mano, come quella di Robinson, è stata devastante.

Quando Carlson e Robinson si sono messi a chiacchierare, io avevo quasi esaurito la mia forza di resistenza. Robinson si è lamentato della scarsa qualità e quantità dei sigari dopo l’inizio della rivolta a Cuba. Carlson gli ha suggerito di prendere il treno che nel pomeriggio partiva dall’hotel per il Vecchio Messico: lì avrebbe potuto trovare tutti i buoni sigari che voleva. Robinson ha risposto che non aveva tempo; come sempre, a mio beneficio, suppongo. La compagnia sarebbe ripartita per Denver subito dopo la fine della rappresentazione.

A quel punto, non potevo sopportare oltre. In nome di Dio, cosa ci facevo seduto lì con Robinson e la signora McKenna quando, per stare solo con Elise, avevo superato un baratro di settantacinque anni?

Stavo per chiederle con foga insistente di accompagnarmi in una passeggiata quando il buonsenso ha prevalso. Lei non era certo nello stato d’animo adatto per vedersi imporre qualcosa. Comunque, dovevo portarla via da lì.

Ho trovato la risposta, e ho agito. Mi sono chinato verso lei e ho pronunciato il suo nome in un soffio esile.

Elise ha alzato la testa dal consommé, con espressione rigida. Solo allora ho ricordato che avrei dovuto chiamarla signorina McKenna, ma ho lasciato perdere. — Non mi sento molto bene. Credo di avere bisogno di un po’ d’aria — le ho detto. — Le spiacerebbe…

— La faccio accompagnare alla sua stanza — mi ha interrotto Robinson. Evidentemente, non avevo tenuto la voce abbastanza bassa.

— Ecco…

Mi sono zittito quando lui si è girato per chiamare il maître. Doveva averla vinta lui, allora? Avrebbe scoperto che non avevo una stanza, né bagagli, né nient’altro? — Ho solo bisogno di un po’ d’aria — ho ripetuto.

Lui mi ha guardato con espressione apatica. — Come preferisce — ha detto.

— Elise, la prego, venga con me. — Mi era chiaro che solo un appello alla sua empatia poteva forse vincere le resistenze di Robinson.

— La signorina McKenna — ha mugugnato lui — deve stare attenta alla propria salute.

Io ho preferito ignorarlo; non avevo alternative. — Vuole aiutarmi? — ho chiesto.

Alzando il volume di voce, Robinson mi ha informato che stavo diventando importuno.

— Basta così — è intervenuta Elise, interrompendolo. I nostri occhi si sono incontrati mentre ci alzavamo, e io ho visto che il mio successo era dolorosamente precario. Lei avrebbe fatto ciò che le chiedevo, ma non per simpatia umana; soltanto per evitare una scenata e, forse (l’idea mi ha raggelato), per sbarazzarsi di me da qualche altra pane.

— “Elise” — ha detto la signora McKenna, più stupefatta che offesa. In quel momento, ho capito che le sue convinzioni non erano per nulla ferree come quelle di Robinson, e che l’impresario era il mio unico, vero nemico.

La livida presenza di Robinson era adesso in piedi. — La aiuto io — ha annunciato. Era un ordine, più che un’offerta.

— Lascia stare — gli ha detto Elise, in un tono talmente sconcertato da farmi chiedere se non avessi perso più di ciò che avevo guadagnato.

— Elise, non posso permetterlo — ha detto lui.

— “Non posso…” — La voce di Elise si è interrotta; il suo volto si è teso all’improvviso.

Nessuno ha aggiunto altro. Ho sentito la rigida stretta delle sue dita sul mio braccio, e ci siamo allontanati dal tavolo. Girandomi a guardare Robinson, ho tremato alla sua velenosità: la bocca era una ferita bianca, sottile, cattiva; gli occhi scuri erano incollati su di me. La sua era, se mai ne ho vista una, un’espressione che denota “oscure intenzioni”.

Stavo per dire qualcosa che consolasse Elise, quando ho rammentato di averle raccontato che non mi sentivo bene. Fino a che punto dovevo recitare la scena? Considerato che prima o poi, per mettermi la coscienza a posto, avrei dovuto confessarle la verità, ho scelto per il momento un nervoso silenzio. Nervoso perché mi sembrava che gli occhi di tutte le persone che stavano cenando, non solo quelli di Robinson, seguissero noi due. Ripensandoci ora, sono certo di avere immaginato quasi tutto.

Avviandoci nel corridoio che portava alla veranda, mi sono domandato dove mi stesse portando Elise; le sue dita mi guidavano, su quello non c’era dubbio. — Vuole scaraventarmi nell’oceano? — ho detto. Lei non ha risposto. Guardava diritto davanti a sé, con un’espressione che mi ha turbato; non c’era la minima traccia di empatia.

— Mi scuso di nuovo — ho detto. — So… — Ma non ho continuato, furibondo con me stesso. “Basta con le scuse” ho pensato. Volevo tirarla fuori dalla sala della Corona e c’ero riuscito. “In guerra e in amore, ogni mezzo è lecito, ha recitato la mia mente. Non affogare nei luoghi comuni” le ho ordinato.

Quando lei ha spalancato la porta della veranda e io ho visto i ripidi, scuri gradini che scendevano verso il basso, mi sono ritratto in un gesto di involontaria sorpresa. — Si aggrappi alla ringhiera — ha detto lei, leggendo allarme nella mia reazione, immagino. Ho aggiunto anche quello alla mia serie di sensi di colpa. Annuendo, ho cominciato a scendere.

C’erano due scale per il Paseo del Mar. Una portava a sud, l’altra a nord. Noi abbiamo preso quella a nord. Gradualmente, ho cercato di far apparire più saldi i miei passi, come se l’aria marina mi stesse dando sollievo. Era inutile continuare con la commedia del malessere fisico; di certo non volevo che lei mi considerasse una specie di relitto umano. Però non potevo nemmeno permettere che il mio miglioramento sembrasse miracoloso; e se proprio devo confessare la nuda verità, mi piaceva la stretta della sua mano sul mio braccio, la pressione della sua spalla contro la mia.