Elise ha emesso un gemito soffocato. — Il che non mi aiuterà affatto. — Mi ha fissato in silenzio per un po’; poi, protendendosi sulla destra, ha tirato la catenella di una lampada da tavolo. La luce mi ha fatto strizzare le palpebre.
Lei ha continuato a scrutarmi. Era difficile interpretare le sue emozioni. Nonostante l’espressione grave, speravo di poter leggere in lei l’inizio di un’accettazione. Ma forse è un termine eccessivo; diciamo “sopportazione”. Se non altro, avevo conquistato quella minima vittoria.
Ha abbassato la testa. — Mi spiace — ha detto. — Ho ricominciato a fissarla. Non so perché lo faccio. — Un sospiro. — Ma “certo” che lo so. È il suo viso. — Mi ha guardato. — C’è qualcosa, dietro quell’aspetto dolce. Ma cosa?
Avrei voluto parlare, o fare qualcosa, ma non sapevo cosa. Temevo di perdermi in vacue stupidaggini.
Elise aveva riportato gli occhi sulle proprie mani. — Credevo di sapere come il mondo — ha detto. — Il mio mondo, per lo meno. Credevo di essermi adattata a ogni suo ritmo. — Ha scosso la testa. — E adesso, questo.
Io volevo obbedire alla sua richiesta, mantenere le distanze fra noi; ma prima di rendermi conto delle mie intenzioni, ho scoperto di essermi alzato e incamminato verso lei. Lei mi ha scrutato. Non era esattamente nervosa, anche se di certo non ardeva di gioiosa attesa. Mi sono seduto al suo fianco sul divano e le ho sorriso con tutta la dolcezza possibile. — Mi spiace che non abbia dormito — le ho detto.
— È così evidente? — ha domandato lei, e io mi sono reso conto di non averne avuto la certezza fino a quel momento.
— Non ho dormito molto nemmeno io — le ho detto. — Ho trascorso quasi l’intera notte a… pensare. — Non mi pareva il caso di confessarle che avevo scritto.
— Anch’io. — Nelle sue parole vibrava un sottofondo di partecipazione, ma fra noi due c’era ancora una barriera.
— E…?
— E — ha risposto lei — la situazione è così complessa che va al di là della mia comprensione.
— No — ho ribattuto, d’impulso. — Non è affatto complessa, Elise. È semplice. Noi eravamo destinati a incontrarci.
— Destinati da cosa? — ha domandato, quasi angosciata.
Non potevo permettermi di offrirle una spiegazione. — Ha detto che mi aspettava — ho risposto, evasivo. — Questo, per me, è destino.
— O un’incredibile coincidenza — ha detto lei.
Ho avvertito un dolore fisico al petto. — Non può crederlo.
— Non so più cosa credere — ha ribattuto lei.
— Perché mi aspettava?
— Vuole dirmi da dove viene? — ha replicato lei.
— Gliel’ho detto.
— “Richard.” — Il tono era pacato, ma l’intonazione di rimprovero suonava chiara.
— Le prometto che glielo dirò quando arriverà il momento giusto. Adesso non posso perché… — Ho cercato le parole giuste. — Perché potrei turbarla.
— Turbarmi? — La sua risata è stata breve, intrisa d’amarezza. — Come potrei essere più turbata di ora?
Ho atteso, in silenzio. Lei ha lasciato trascorrere tanto tempo da farmi pensare che non volesse dirmi niente. Poi, alla fine, ha spezzato il silenzio con una domanda imprevista: — Si metterà a ridere?
— È una storia buffa? — Non sono riuscito a frenare la risposta, anche se l’ho rimpianta nell’istante stesso in cui mi è uscita dalle labbra.
Per fortuna, lei l’ha presa per ciò che era. Il suo viso si è addolcito in un sorriso stanco. — In un certo senso. Bizzarra, come minimo.
— Lasci decidere a me.
Un’altra lunga esitazione. Alla fine, raddrizzando le spalle come per chiamare a raccolta le sue forze, Elise ha cominciato. — È una storia divisa in due parti. Alla fine degli anni Ottanta, non ricordo l’anno esatto, mia madre e io abbiamo recitato a Virginia City.
“Novembre 1887” ho pensato automaticamente.
— Una sera, dopo lo spettacolo — ha continuato lei — qualcuno ha portato una vecchia indiana all’hotel dove alloggiavamo. Ci hanno detto che sapeva prevedere il futuro, e così, per puro divertimento, le ho chiesto di predire il mio.
Il mio cuore ha accelerato i battiti.
— Mi ha detto che, a ventinove anni, avrei incontrato l’… — Si è interrotta. — Un uomo — si è corretta. — Che mi si sarebbe presentato… — Ha trattenuto il fiato. — In circostanze molto strane.
Ho scrutato il suo incantevole profilo. Vedendo che non aggiungeva altro, l’ho sollecitata: — E la seconda parte?
Lei ha risposto immediatamente. — Nella nostra compagnia c’è una guardarobiera che è figlia di una zingara. Sostiene di possedere… come devo chiamarlo?… il dono della divinazione.
I battiti del mio cuore erano ormai frenetici. — E? — ho mormorato.
— Sei mesi fa, mi ha detto che… — Si è interrotta, irrequieta.
— La prego, continui — ho implorato.
Una nuova esitazione, poi: — Che avrei incontrato questo… uomo in novembre. — L’ho sentita deglutire. — “Su una spiaggia” — ha detto.
Non riuscivo più a parlare, sopraffatto da quello che mi aveva raccontato. Il miracolo di ciò che era accaduto nella mia vita mi appariva adesso controbilanciato dal miracolo di ciò che era accaduto nella sua. Non che credessi di essere l’unico uomo al mondo per lei; niente del genere. Semplicemente, provavo una sterminata meraviglia di fronte al mistero del nostro incontro.
A Elise è tornata la voce prima che a me. Ha gesticolato con la destra; un gesto che esprimeva confusione.
— All’epoca — ha detto — non avevo la più pallida idea che avremmo allestito qui Il piccolo ministro per un’anteprima. L’invito è arrivato mesi dopo. E non ho mai collegato Coronado a quello che mi aveva detto Marie.
Per un attimo, si è persa a scrutare i ricordi. — È stato solo giungendo all’hotel che mi è tornato tutto in mente — ha ripreso. — Martedì pomeriggio stavo guardando da quella finestra quando, all’improvviso, la spiaggia mi ha fatto ricordare ciò che aveva detto Marie… e poi quello che aveva detto la donna indiana.
Ha girato la testa e mi ha fissato con aria d’accusa; anche se, il cielo mi è testimone, era un’accusa dolce.
— Da quel momento, mi sto comportando in maniera molto strana — ha detto. — Ieri, alle prove, sono stata indecente. — Ho ricordato la frase di Robinson della sera prima. — Ho scordato decine di battute, ho sbagliato i movimenti… Ho sbagliato tutto. E non lo faccio mai. “Mai.” — Ha scosso la testa. — Ma ieri è successo. Non riuscivo a combinare una sola cosa giusta. Riuscivo solo a pensare che era novembre e mi trovavo vicina a una spiaggia e mi era stato detto, non una volta ma due, che avrei incontrato un uomo in questo periodo dell’anno, in un posto come questo. Io “non volevo” incontrare un uomo. Insomma…
Si è interrotta, e io ho capito che era agitata per avere svelato più di quanto intendesse. Ha scrollato entrambe le mani, come per scacciare quelle rivelazioni. — Comunque, ecco perché le ho chiesto “Sei tu?” Non lo avrei mai fatto, in condizioni diverse. — Ha scosso ancora la testa, con un piccolo gemito. — Quando lei mi ha risposto di sì, sono quasi svenuta.
— E io sono quasi svenuto quando lei ha domandato “Sei tu?”
Lei si è voltata a guardarmi, di scatto. — Non sapeva che la aspettavo?
Speravo di non avere commesso un errore terribile, ma ormai non potevo fare dietrofront. — No.
— Allora perché ha risposto di sì?
— Perché lei mi accettasse — le ho detto. — Io “credo” che fossimo destinati a incontrarci, però non sapevo di essere atteso.
Mi ha scrutato attenta, sondandomi con gli occhi. — Da dove viene, Richard? — ha chiesto.