Sono quasi stato sul punto di dirglielo. Al momento, mi è parso assolutamente naturale. Solo all’ultimo secondo una qualche cautela interiore ha avuto la meglio, facendomi capire che una cosa è sentirsi predire il futuro da un’indiana e da una guardarobiera con sangue zingaro nelle vene, e invece è tutt’altro trovarsi di fronte alla realtà concreta del futuro, porta da qualcuno che ha viaggiato all’indietro nel tempo.
Accorgendosi che non parlavo, lei ha emesso un gemito così disperato da straziarmi. — Ci risiamo — ha detto. — Questa nube che lei mi avvolge attorno. Questo “mistero.”
— Ma io non voglio avvolgerla in una nube — ho ribattuto. — Voglio solo proteggerla.
— Da “cosa?”
Di nuovo, non ero in grado di offrirle una risposta sensata. — Non so — ho detto. Quando lei si è scostata da me, mi sono affrettato ad aggiungere: — Intuisco solo che potrei farle del male, e questo mi è impossibile. — Ho tentato di prenderle la mano. — Io ti amo, Elise.
Lei si è alzata prima che potessi toccarla, allontanandosi dal divano a passi lenti, agitati. — “Non sia ingiusto” — ha detto.
— Mi spiace. È solo che… — Cosa potevo dirle? — Mi sono impegnato in questa cosa in maniera così totale che è difficile…
— “Io non posso impegnarmi a nulla” — mi ha interrotto lei.
Sono rimasto seduto in silenzio, sconfitto, a fissarla. Era ferma davanti alla finestra, a braccia conserte, e guardava l’oceano. Ho intuito una terribile tensione in lei, qualcosa che teneva nascosta dentro solo con un enorme sforzo. Qualcosa che non potevo sperare di raggiungere, nemmeno se avessi saputo cosa fosse. Sapevo solo che il senso di affinità, così forte qualche istante prima, adesso era completamente svanito.
Penso che lei debba averlo capito; che per lo meno si sia resa conto di avermi trattato in maniera troppo dura, perché il suo atteggiamento si è fatto più rilassato.
— Non si senta ferito, la prego — ha detto. — La colpa non è sua. Non è che io non mi senta… attratta. È chiaro che lo sono.
Gemendo sottovoce, si è girata verso me. — Se lei sapesse in che modo ho sempre vissuto — mi ha detto. — Se sapesse fino a che punto il mio atteggiamento nei suoi confronti è un capovolgimento totale di tutto ciò che ho fatto…
“Lo so” ho pensato. Ma saperlo non mi aiutava.
— Ha visto come ha reagito mia madre alla sua presenza qui, ieri sera — ha detto lei. — Al fatto che io l’abbia invitata a cenare con noi. Ha visto come ha reagito il mio impresario. Erano “sbalorditi.” È l’unico termine possibile. — Ha emesso un sospiro di dolorosa ironia.
— Ma non più sbalorditi di me.
Non ho risposto. Non c’era nient’altro da dire. Avevo già detto tutto, presentato la mia causa. Adesso potevo solo tirarmi in disparte e lasciarle tempo. “Tempo”, ho pensato; “sempre il tempo”. Il tempo che mi aveva portato da lei. Il tempo che adesso doveva aiutarmi a conquistarla.
— Lei… mi lusinga col suo interesse — ha detto. La frase era troppo formale per tranquillizzarmi. — Anche se la conosco appena, nel suo modo di fare c’è qualcosa che non ho mai visto in un uomo. So che non vuole farmi del male. Io addirittura… “mi fido” di lei. — Lo ammetteva in tono perplesso, svelando chiaramente quale fosse stato, per tanti anni, il suo atteggiamento nei confronti degli uomini. — Ma impegnarmi? No.
Devo avere avuto un’aria molto abbattuta, perché il semplice guardarmi l’ha impietosita, ed è tornata a sedere al mio fianco. Mi ha sorriso, e io sono riuscito a restituirle il sorriso… Quasi.
— Si rende conto… — ha cominciato. — No, lei può soltanto credermi se le dico che è così… che è praticamente incredibile che un uomo sieda accanto a me, nella mia camera d’hotel. Con me in vestaglia, e nessun’altra anima viva in giro. È… “soprannaturale”, Richard. — Il suo sorriso ha cercato di farmi capire quanto la cosa fosse soprannaturale. Ma, ovviamente, io lo sapevo già, e non potevo trarne conforto.
Elise ha emesso uno sbuffo perplesso. — Non può restare qui — ha detto. — Se entrasse mia madre e la trovasse a quest’ora, con me in camicia da notte e vestaglia… “esploderebbe”.
La visione di sua madre che esplodeva ci ha colpiti contemporaneamente: abbiamo riso nello stesso attimo.
— Basta — mi ha ordinato all’improvviso. — È nella stanza accanto. Ci sentirà.
Nei romanzi rosa, il fatto che un uomo e una donna ridano assieme porta immancabilmente a sguardi infuocati, abbracci torridi, e baci appassionati. Non nel nostro caso. Quando tutti e due abbiamo ritrovato il controllo, lei si è alzata e ha detto: — Adesso deve andare, Richard.
— Facciamo colazione assieme? — ho chiesto.
Lei ha esitato, prima di annuire e rispondere: — Mi devo vestire. — Ho tentato di provare un senso di vittoria, ma la logica si è rifiutata di permettermelo. Elise ha raggiunto la camera da letto, è entrata, e ha chiuso la porta.
Io sono rimasto a fissarla, cercando di sviluppare una qualche fiducia interiore sul rapporto fra noi due. Non ho potuto. Fra noi si ergeva una parete: il suo passato, il suo stile di vita, ciò che lei “era”. Il che rendeva tutto estremamente difficile. La fantasia mi aveva spinto a innamorarmi di una fotografia e a viaggiare nel tempo per essere con lei. La fantasia poteva persino avere preavvertito Elise del mio arrivo.
Al di là di quello, la situazione era, ed è, di assoluta realtà. Adesso, solo azioni reali possono determinare il nostro futuro.
La targa sopra la porta diceva SALA DELLA PRIMA COLAZIONE. Abbiamo superato l’arcata dell’ingresso, e un ometto vestito di nero ci ha accompagnati a un tavolo.
La sala non avrebbe potuto essere più diversa da ciò che era; da ciò che sarebbe diventata, intendo. Solo i pannelli del solfitto sono rimasti identici. Non ci sono arcate laterali, e il locale è notevolmente più piccolo di come lo ricordo io. Le finestre sono più basse e strette, con persiane alla veneziana, e ci sono tavoli rotondi oltre a quelli quadrati, con sedie ad assicelle di legno raccolte attorno, tovaglie bianche su ogni tavolo, vasi di fiori freschi al centro.
Mentre superavamo un tavolo, un ometto tozzo, coi capelli biondi, si è alzato di scatto e ha afferrato la mano di Elise, baciandola teatralmente; un attore, senza dubbio. Elise me lo ha presentato come il signor Jepson. Il signor Jepson mi ha scrutato con aperta curiosità prima e dopo che noi ci allontanassimo, senza accettare il suo invito a unirci a lui.
Il cameriere ci ha fatti accomodare a un tavolo davanti a una finestra, si è inchinato con un sorriso rigido, meccanico, e se n’è andato. Sedendomi, ho capito perché la stanza apparisse più piccola. Nel punto in cui ricordavo di essermi seduto c’era adesso una veranda con diverse sedie a dondolo.
Scrutando di lato, ho scoperto che, seppur di soppiatto, gli occhietti tondi del signor Jepson erano ancora su noi. — Temo di averla compromessa un’altra volta — ho detto. — Chiedo scusa.
— Ciò che è fatto è fatto, Richard — ha replicato lei. Devo dire che mi sembrava piuttosto calma. Mi ha dato l’impressione di non lasciarsi turbare più di tanto dalle opinioni negative degli altri; un nuovo punto a suo favore. Come se ne avesse bisogno.
Quando ho raccolto il tovagliolo dal piatto davanti a me, ho sentito un uomo, vicino a noi, dire ad alta voce: — Siamo una nazione forte di settantacinque milioni di abitanti, signore. — La cifra mi ha sgomentato. Un aumento di oltre cento milioni di abitanti nell’arco dei settantacinque anni successivi? Buon Dio.
Intanto, mi era sfuggita la domanda di Elise. Le ho chiesto scusa. — Ancora non ha fame? — ha ripetuto lei.
— Un po’. — Le ho sorriso. — Oggi provate?