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Lasciando la sala, mentre ci avviavamo all’atrio, lei ha detto: — Adesso devo prepararmi per le prove. Cominciamo alle nove e trenta.

Credo, per la prima volta, di essere riuscito a non riflettere in volto la fitta d’angoscia. — Oggi avrà un po’ di tempo libero? — ho chiesto. Penso che la mia voce suonasse calma.

Lei mi ha scrutato come per riflettere sulle mie parole; o forse, sul mio posto all’interno della sua vita.

— Se può — ho aggiunto. — Sa che vorrei vederla.

Lei ha risposto dopo una lunga pausa. — È libero all’una?

Ho sorriso. — I miei impegni sono limitati. Consistono solo nel vedere lei appena possibile.

Di nuovo, quello sguardo; quell’esame del mio viso, in cerca di una risposta a tutte le sue domande. Non so quanto sia durato, ma a me è parso molto tempo. Non ho fatto nulla per metterle fretta. Intuivo che per lei quei momenti erano di importanza essenziale, e che ogni mia parola poteva snaturarli.

Quando, alla fine, quell’espressione è svanita, lei ha guardato il cortile aperto, poi me. — Fuori? — ha chiesto. — Alla fontana?

— Alla fontana, all’una — ho detto io.

Elise ha teso la mano. Stringendola con tutta la mia delicatezza, l’ho sollevata alle labbra e baciata.

Poi sono rimasto immobile, a scrutare ogni suo passo mentre percorreva il cortile aperto; ho rabbrividito vedendola svanire oltre l’ingresso del salotto. Più di quattro ore. Non riuscivo a concepire di stare lontano da lei per tanto tempo. Vero, l’intervallo della notte era stato più lungo, ma avevo dormito.

“Ho dormito”. Per la prima volta dal risveglio, mi sono concesso di prendere piena coscienza del mio stato fisico. Ho chiuso gli occhi e offerto una preghiera di ringraziamento alla forza che mi aveva toccato: per quanto riuscivo a sentire, nella mia testa non c’era una sola punta di dolore. Mi è impossibile esprimere l’intensità delle mie sensazioni. Solo qualcuno che abbia vissuto la stessa esperienza può capire cosa provavo, e cosa provo ancora. Il mattino del giorno prima, anche se in un altro tempo, mi ero svegliato con la solita emicrania paralizzante, debilitante. Il familiare sintomo della mia situazione.

Quel mattino, non sentivo nulla. Col sorriso sulle labbra, ho raggiunto il bureau e ho chiesto all’impiegato dove potessi acquistare articoli da toilette. Mi ha risposto che c’era un emporio nel seminterrato, sulla destra della scala. Però non apriva fino alle nove.

Per un attimo o due, ho provato il folle impulso di chiedergli una stanza e firmare il registro. Ci sarei riuscito? Oppure qualcosa me lo avrebbe impedito? Poi ho deciso di non correre il rischio di mettere alla prova la provvidenza. L’ho ringraziato, ho girato sui tacchi, e mi sono diretto alla scala.

Scendendo, ho riflettuto su Elise. Ho capito che avevo pensato a lei solo nei termini del suo rapporto con me. Adesso, dovevo iniziare a considerarla nei termini della sua esistenza personale. “Se voglio conquistarla, non posso farlo con pretese di astratto, assoluto romanticismo. La conosco solo da poche ore. Nel suo passato ci sono ventinove anni che devo affrontare”.

L’emporio si trova dove io ricordo un’agenzia immobiliare. Sono rimasto ad aspettare che aprisse per sei minuti circa. In quel periodo, mi sono passati accanto diversi inservienti di cucina, cinesi, che conversavano nella loro lingua. Alla fine, l’impiegato ha aperto la porta. Era un ometto basso, scuro di capelli, con una camicia dal colletto alto che pareva di celluloide, un cravattino nero, e una giacca di mussola bianca dai risvolti stretti. Stava cercando di farsi crescere un paio di baffi, ma sopra il suo labbro c’era più nerofumo che peluria. Dal che ho dedotto quanto fosse giovane.

Non era facile capirlo da altre cose perché, come tanti uomini di ogni età di quell’epoca, appariva estremamente serio, quasi si trovasse alle prese con una montagna di duro lavoro e lo sapesse benissimo; ancora di più, dava l’impressione di accettare il lavoro senza discussioni. Il suo “Buongiorno, signore”, per quanto non sgradevole, è stato brusco e secco, per non sprecare un solo secondo. Doveva afferrare una stella, quel giovanotto. Aveva l’esatto aspetto che avrebbe Horatio Alger, se una persona simile potesse esistere davvero.

Mentre lui si occupava di me (ho acquistato un rasoio a mano libera non per libera scelta ma perché non c’era altro, ciotola, pennello e sapone da barba, una spazzola e un pettine, uno spazzolino da denti, dentifricio in polvere, e una penna stilografica) ho potuto guardarmi attorno nel negozio.

Le pareti erano tappezzate di manifesti pubblicitari: TINTURA PER CAPELLI DAMSCHINSKY; ORANGEINE, IL RIMEDIO UNIVERSALE PER IL DOLORE; BROMO-CHININO PER I RAFFREDDORI; RIMEDIO A BASE DI SEDANO PER LA STITICHEZZA. Quest’ultimo problema dev’essere piuttosto diffuso qui, visto quanto si mangia. C’erano decine di altri articoli, ma è inutile elencarli tutti: questo non è un saggio storico, ma il resoconto della mia storia personale. Basti dire che scaffali e vetrinette rigurgitavano di bottiglie e scatole di ogni forma e dimensione.

Guardando l’orologio alla parete, ho sobbalzato nello scoprire che erano le nove e undici. In tutta fretta, ho chiesto al commesso se nei paraggi ci fosse un posto dove poter acquistare “indumenti intimi per gentiluomo”. Ho usato davvero questa frase: credo che una parte di me sia profondamente vittoriana.

Forse ho addirittura esagerato, perché mi è parso che il commesso soffocasse un sorriso nel rispondermi che l’emporio aveva anche un settore riservato all’abbigliamento per gentiluomo; non aveva ancora avuto il tempo di accenderne le luci.

Ho acquistato un completo di maglieria intima, calze, e poi, all’ultimo momento, una camicia bianca. Ho estratto la banconota da dieci dollari e l’ho messa sul banco.

— Hmm — ha detto il commesso. — Era da un po’ che non ne vedevo una.

Buon Dio! Avevo portato con me il denaro sbagliato? Mi ha assalito l’ansia. Sapevo di dover firmare il registro alle nove e diciotto. Un’angosciosa inquietudine mi diceva che, se non lo avessi fatto in quel preciso momento, sarebbe accaduto qualcosa di terribile. L’intera struttura della mia presenza nel 1896 sarebbe crollata come un castello di carte.

Per fortuna, il commesso non ha fatto storie. Ha messo i miei acquisti in un sacchetto e mi ha dato il resto. Nonostante l’ansia, sono rimasto molto colpito dal fatto che il totale della mia spesa ammontasse a meno di cinque dollari. Scuotendo la testa, ho lasciato il negozio e mi sono diretto alla scala.

A quel punto, ero talmente nervoso per la possibilità di non firmare in tempo che ho divorato i gradini a due a due, ho attraversato l’atrio a passi lunghi, veloci, e mi sono fermato davanti al banco del bureau col cuore che batteva forte. Un’occhiata all’orologio mi ha rivelato che erano appena passate le nove e quindici.

Si è presentato l’impiegato e gli ho chiesto una stanza.

— Sì, signore. È appena arrivato? — ha domandato lui. Dall’espressione arrogante del suo volto ho capito che me lo chiedeva quasi per sfidarmi, non per curiosità. Il mio aspetto deve essergli parso discutibile e sospetto.

Mi ha stupito mentire con tanta facilità. La mia storia è uscita dalle labbra spontanea, e non mi sono tradito nel tono, o nei gesti. Ero arrivato la sera prima, ma non mi sentivo affatto bene, per cui ero stato costretto a passare la notte nella stanza di un amico. Adesso, rimesso a nuovo, volevo una camera mia.