Forse le mie menzogne non erano perfette come mi illudevo, ma se non altro, l’impiegato non ha avuto il coraggio di insistere con le domande. Si è girato, ha studiato il quadro delle chiavi, Si è voltato di nuovo dopo parecchi momenti e mi ha messo di fronte, sul banco, una chiave. — Eccoci qua — ha detto. — Una stanza singola. Tre dollari al giorno. L’uso della vasca da bagno comporta un extra. Vuole firmare il registro, signore? — Mi ha teso una penna.
Ho fissato la chiave con incredulo stupore. Era della stanza 420. Mi sono sentito, di nuovo, totalmente disorientato. In un attimo, la vista di quella chiave mi ha strappato tutto l’adattamento mentale che credevo di possedere. — È… È sicuro? — ho balbettato alla fine.
— Signore?
Non so perché quel momento sia stato così terrificante per me. Ero lì, nel 1896. Avevo appuntamento con Elise all’una, e per quanto ci fosse ancora molto da fare, il nostro rapporto poggiava su basi decenti. Però le implicazioni di quel numero di stanza erano tanto atroci da riempirmi di paura. — È sicuro che sia la stanza giusta? — ho chiesto. Mi tremava la voce, e il tono era troppo alto.
— La stanza giusta, signore? — L’impiegato mi ha guardato come se fossi uscito di senno.
Dio solo sa cosa avrei detto o fatto se in quell’istante non fosse arrivato un altro impiegato. Dopo avere guardato la chiave, l’ha raccolta dal banco. — Mi spiace, signor Beals — ha detto. — Questa stanza è prenotata. Ho dimenticato di lasciare un appunto.
Dalle mie labbra è sfuggito un sospiro di sollievo molto chiaro. L’impiegato ha guardato il collega con aria irritata; poi, con un’occhiata a me che mi ha fatto saltare i nervi, si è voltato per prendere un’altra chiave. Soltanto allora mi sono reso conto di essere estremamente vulnerabile a tutto ciò che ha a che fare col mio viaggio nel tempo. Non so quando questo senso di vulnerabilità passerà, ma per adesso mi accompagna in continuazione, ed è, potenzialmente, mortale.
L’impiegato si è girato. Sul suo volto c’era ancora quell’espressione di sospettosa curiosità. “Se anche questa è la chiave sbagliata”, ho pensato, “sprofonderò nel pavimento”.
Non ho potuto trattenere un nuovo sospiro, e un sorriso involontario, vedendo il numero della chiave. “Tombola”, ho pensato. La mia tensione è svanita. L’impiegato ha raccolto la penna e me l’ha porta un’altra volta.
Io l’ho presa e ho guardato la pagina che avevo davanti. Ho provato la stessa emozione di quando avevo stretto la mano a Babcock. Un giorno, quel registro adesso nuovo sarebbe finito in una stanza caldissima del seminterrato, ingiallito e coperto da uno strato di polvere grigia, e io lo avrei guardato.
Scacciata l’idea dalla testa, ho letto l’ultimo nome scritto sulla pagina: CHANCELLOR L. JENKS E MOGLIE, SAN FRANCISCO. La mia mano ha preso a tremare: se non avessi firmato immediatamente, avrei alterato il corso del tempo. L’idea era spaventosa. Se solo fossi rimasto lì senza fare nulla, tutto sarebbe cambiato. “Disturbare una stella”, ho pensato, senza sapere dove avessi letto quelle parole.
Poi ho scrutato la mia mano che firmava R.C. COLLIER, LOS ANGELES. Anche le implicazioni di quel particolare erano sconvolgenti. Avrei potuto firmare “Richard Collier”. In condizioni normali, lo avrei fatto. Avere visto, nel 1971, il mio nome scritto in maniera così singolare, essere poi tornato al momento della firma e avere “copiato” ciò che avevo visto settantacinque anni “dopo” la firma, resta un enigma talmente complesso e multiforme da darmi il capogiro.
— Grazie, signore — ha detto l’impiegato. Ha girato verso di sé il registro, e l’ho visto scrivere il numero della stanza e l’ora. “Seconda tombola”, ho pensato, con un brivido.
— In che camera si trovano i suoi bagagli, signore? — ha chiesto l’impiegato. — Li mando a prendere.
L’ho fissato, mentre lui attendeva una risposta. Poi gli ho sorriso; deve essere stato un sorriso mostruosamente artificiale. — Non c’è problema — ha detto R.C. Collier. — Li prenderò io più tardi. Non ho molto. — “Non hai niente”, ho pensato.
— Molto bene, signore. — L’impiegato era di nuovo sospettoso, ma adesso io ero un cliente dell’hotel, e non si può essere sospettosi coi clienti. Ha schioccato le dita, facendomi sobbalzare, ed è apparso un fattorino. Il signor Beals gli ha dato la chiave, e il fattorino mi ha rivolto un inchino. — Da questa parte, signore — ha detto.
Mi ha guidato all’ascensore. Siamo saliti. La porta si è chiusa con cigolante lentezza, e siamo partiti. Mentre salivamo, il fattorino e il ragazzo dell’ascensore si sono messi a discutere dell’illuminazione elettrica installata da poco nell’ascensore. Non ho prestato attenzione alle loro parole. Riflettevo sulla precarietà del mio stato. Mi ero illuso che il senso di instabilità diminuisse, ma ormai mi era chiaro quanto fosse ancora pericoloso. A livello mentale, camminavo su una corda tesa sul vuoto. Da un momento all’altro, poteva succedere qualcosa (una parola, un fatto, addirittura un pensiero) capace di farmi precipitare. E la mia caduta poteva avere un solo, terribile effetto: il ritorno al 1971. Lo sapevo benissimo, ed era un’idea che mi terrorizzava.
Siamo scesi dall’ascensore al terzo piano, e il fattorino (avevo dimenticato di dire che anche lui, come il primo, aveva un’età più che rispettabile) mi ha guidato fuori. Abbiamo fatto il giro della veranda, verso il lato dell’hotel rivolto all’oceano. Ho visto due piccioni con la coda a ventaglio aggirarsi sulla scala esterna, in direzione del quarto piano; lasciavano esili impronte sui gradini. Ricordo vagamente che il fattorino mi ha raccontato che appartenevano alla guardarobiera, e che il signor Babcock si dimostrava “tirannico” quando procuravano qualche inconveniente.
Mentre riprendevamo a percorrere un corridoio interno, ho visto un giornale per terra, davanti a una stanza. Dava l’impressione di essere già stato letto e abbandonato, così l’ho raccolto dal pavimento, fingendo di ignorare l’occhiata sdegnata del fattorino. Di nuovo, “déjà vu” (alla rovescia, ovviamente). Il giornale era il “San Diego Union”.
Il pomolo della porta della stanza 350 era di metallo scuro, con decorazioni a fiori. L’ho studiato mentre il fattorino apriva con la chiave. Per un attimo, ho ripensato alla stanza dalla quale ero fuggito il giorno prima, e mi sono chiesto se qualcuno stesse ancora rimuginando sull’enigma.
Il fattorino mi ha porto la chiave con la targhetta ovale e ha chiesto: — Desidera nient’altro, signore?
— No, grazie. — Gli ho teso un quarto di dollaro, giudicando che potesse bastare. Forse era troppo. L’uomo ha strabuzzato gli occhi e si è girato mormorando: — “Grazie”, signore.
— Aspetti, c’è qualcosa. — Mi era venuta un’idea. Lui si è fermato, si è girato. — Può aspettare un momento? — gli ho domandato.
— Certo, signore.
Chiusa la porta, mi sono tolto giacca e pantaloni. Ho dovuto togliere anche gli stivali, per riuscire a sfilare i calzoni. Ho sporto la mano dalla porta e ho teso gli indumenti al fattorino. — Può farmeli stirare e riportarmeli nel giro di un’ora?
— Sì, signore — ha risposto dal corridoio la sua voce. Chissà cosa stava pensando. Un ospite dell’hotel del Coronado con un solo vestito? Che il cielo ci protegga.
Rimasto solo, ho studiato la stanza.
È piccola, non più di tre metri e mezzo per quattro, direi. L’arredamento è minimo: un letto in legno scuro, e accanto un tavolo rettangolare con due cassetti, su un robusto piedistallo a quattro gambe; un grosso cassettone scuro, sostenuto da gambe che rappresentano artigli ferini; una sedia di vimini e uno specchio con una cornice rococò alla parete sopra il cassettone. Niente lampade. L’illuminazione è fornita da un lampadario identico a quello della stanza in cui mi sono trovato ieri. Il camino è nell’angolo in fondo a destra rispetto all’ingresso. Ho dimenticato qualcosa? Ah, sì: una sputacchiera di porcellana accanto alla sedia, emblema dei delicati costumi fin de siècle. Dovrò allenarmi a sputare.