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Di colpo, lei mi ha stretto il braccio e ha sorriso di nuovo, questa volta in maniera radiosa, e (me lo sono immaginato?) con affetto. — Ma sono una compagnia deprimente — ha detto. — Mi perdoni.

— Non c’è niente da perdonare — ho ribattuto, restituendole il sorriso.

Lei mi ha fissato intensamente mentre percorrevamo diversi metri; poi, con uno sbuffo, ha girato la testa. — Sto ricominciando…

Un’occhiata veloce alle spalle. — Richard, mi chiedo se lei capisca davvero quanto sia notevole che io le parli con tanta libertà — ha detto. — Non lo avevo mai fatto, con un uomo. Voglio lei sappia che è un grande complimento a lei il fatto che ci riesca.

— E io voglio lei sappia che può parlarmi di qualunque cosa — le ho detto.

Di nuovo quell’espressione. Elise ha scosso la testa, perplessa. — Cosa c’è? — le ho chiesto.

— Lei “mi è mancato” — ha detto. Ho dovuto sorridere al tono esterrefatto della sua voce.

— Strano. — L’ho guardata con aria adorante. — Lei non mi è mancata affatto.

Il suo sorriso si è fatto più luminoso. Mi ha stretto di nuovo il braccio. Poi, come se avesse bisogno di dare uno sfogo esterno al piacere interiore, ha puntato gli occhi avanti e strillato: — Oh, guardi!

Ho girato la testa e ho visto un gruppo di uomini e donne correre in bicicletta sulla via d’accesso all’hotel. Sono scoppiato a ridere perché lo spettacolo era, a un tempo, buffo e affascinante. Tutte le biciclette avevano una ruota del diametro di un pneumatico da autocarro pesante, alcune sul davanti, alcune dietro, e un’altra piccola come la ruota di un triciclo per bambini. Quella era la parte buffa. Il fascino veniva dalle coppie su ogni bicicletta: gli uomini in calzoni alla zuava, con un berretto o una bombetta in testa; le donne in lunghe gonne e bluse o maglioni, con strani cappellini. In ogni caso, la donna occupava la parte anteriore della bicicletta; alcune pedalavano, altre lasciavano la fatica all’uomo. Sette coppie in tutto. Si sono allontanate in formazione sparsa dall’hotel, ridendo e chiacchierando. — Deve essere divertente — ho commentato.

— Non lo ha mai fatto? — ha chiesto lei.

— Non su… — Mi sono fermato di colpo. Stavo per dire “Non su biciclette del genere”. — Non in città — ho concluso. — Però mi piacerebbe provare con lei.

— Forse lo faremo — ha detto lei; e io ho provato il brivido di sentire, dalle labbra della donna amata, l’implicita promessa di futuri momenti assieme.

Ho notato che, camminando, Elise teneva sollevate con la destra gonna e sottoveste, e ho riflettuto che, nel 1896, una donna che cammina è una donna con una sola mano libera, dato che l’altra deve sempre essere occupata a reggere l’orlo del vestito al di sopra di polvere o fango o neve o pioggia o quello che capita. Ho sorriso fra me. Cioè, credevo di averlo fatto fra me, ma Elise se n’è accorta e mi ha chiesto perché sorridessi.

Ho capito subito che raccontarle la verità sarebbe servito solo a ricreare attorno a me un’atmosfera di stranezza, così ho detto: — Pensavo alla reazione di sua madre a me, ieri sera.

Ha sorriso anche lei. — Non fa mai vere scenate, però riesce sempre a comunicare con molta forza il suo sdegno.

Che frase deliziosa. — Ha avuto successo, come attrice? — ho domandato. Nessuno dei libri ne faceva cenno.

Il suo sorriso si è fatto leggermente malinconico. — So cosa sta pensando — ha detto — ed è una parte della verità, suppongo. Ma non mi ha mai costretta a recitare. Per me è stata una scelta naturale.

Non intendevo entrare in una zona delicata come il rapporto che può esistere fra un’attrice di scarso successo e la figlia, della quale vive di riflesso i trionfi. Non ho detto niente. Ho solo sorriso quando Elise ha aggiunto: — E “ha avuto” successo, a modo suo.

— Ne sono certo.

Per un po’ abbiamo proseguito senza parlare. Non sentivo il bisogno di parole, e credo fosse così anche per lei; anzi, forse nel suo caso il sentimento era anche più forte. L’aria fresca, la quiete, lo stimolo rasserenante di muoversi sulla terra, sotto il cielo; ecco perché le piace tanto camminare. Le dà l’occasione di sfuggire alle tensioni del suo lavoro.

Mi sono abbandonato a una fantasia sul mio futuro con Elise. Per cominciare, non c’era motivo di non poter restare con lei. Sì, l’ansia per la mia capacità di presa sul 1896 era ancora viva, ma ormai mi sembrava più irrazionale che realistica. Non avevo già dormito ben tre volte senza perdere la presa? Ansia o no, tutte le prove stavano a indicare che, di ora in ora, affondavo radici sempre più solide in quel tempo.

Quindi, era ragionevole supporre che sarei rimasto con lei. Col tempo ci saremmo sposati, e dato che io sono uno scrittore, mi sarei messo a studiare l’argomento, poi avrei scritto opere teatrali. Non mi sarei mai aspettato che lei mi aiutasse a farle rappresentare. Prima o poi, il loro valore intrinseco le avrebbe rese degne della messa in scena. Certo non dubitavo che lei si sarebbe offerta di aiutarmi; ma ho giurato che il nostro rapporto non sarebbe mai andato avanti su una base simile. Mai più avrei corso il rischio di rivedere il dubbio sul suo volto.

Il fatto che tutti i libri che avevo letto su di lei sarebbero cambiati non mi preoccupava. Adesso, la mia preoccupazione di intervenire su quell’epoca, addirittura il timore per la porta che avevo scardinato, mi divertiva. Avevo ormai deciso che la storia, ai livelli meno significativi, debba possedere un certo grado di flessibilità. Io non stavo allatto cercando di modificare una battaglia di Borodino.

In quell’istante, la mia attenzione è stata attratta da un vagone ferroviario fermo su un binario morto, a un centinaio di metri dall’angolo di sudest dell’hotel. Ho capito che poteva essere suo, e gliel’ho chiesto. Lei mi ha risposto che sì, era suo. Non ho fatto commenti, ma mi ha dato una sensazione piuttosto strana trovarmi davanti a una prova tanto concreta della sua ricchezza. Non mi stupiva che avesse sospettato di me; forse sospetta ancora adesso, anche se ne dubito. Sono quasi stato sul punto di chiederle di vedere l’interno del vagone, poi mi sono reso conto che non sarebbe stata una richiesta troppo rassicurante.

Abbiamo attraversato un vialetto, superato un’isola floreale di forma rotonda, e siamo sbucati su un terreno aperto. Alla nostra sinistra c’era una lunga spranga di legno per attaccare i cavalli e, più avanti, una profusione di alberi e cespugli. Dopo esserci addentrati nella vegetazione, abbiamo raggiunto un sentiero in assi di legno che si estendeva sul tratto di riva fra l’oceano e Glorietta Bay.

Incamminandomi sulle assi, ho guardato in direzione dell’oceano e ho visto, lontano, un cielo azzurro, con nubi bianche che il vento trasportava verso nord. Circa duecento metri avanti a noi c’erano il museo dal tetto rosso e lo stabilimento balneare; di fronte, la rimessa per le barche, collegata agli altri due edifici da un secondo sentiero pavimentato in legno. Sulla nostra destra sorgevano due immensi pontili di ferro, che si protendevano sull’oceano sorretti da strutture a forma di V capovolta. Una mezza dozzina di uomini e donne pescavano sui pontili. La spiaggia era molto stretta, non più larga di nove metri, e assai mal tenuta: la coprivano alghe, conchiglie, e quella che sembrava spazzatura, anche se mi era difficile crederlo.

Dopo avere percorso una settantina di metri, ci siamo fermati davanti alla ringhiera del sentiero e abbiamo guardato l’imponente risacca. Il vento era pungente, quasi gelido; ci spruzzava in viso una schiuma che pizzicava la pelle.

— Elise?

— Richard? — La sua imitazione del mio tono è stata così precisa da farmi quasi sorridere. — La smetta, per favore — le ho ordinato, con finta severità. — Ho qualcosa di serio da dirle.

— Dio del cielo!

— Be’, non tanto serio da essere insopportabile — l’ho rassicurata; ma ho aggiunto subito: — Spero.