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L’episodio mi aveva svuotato di ogni energia. “Con quanta imperiosità la protegge”, ho pensato. “È chiaro che i suoi sentimenti vanno ben al di là dei normali rapporti fra impresario e cliente. Ed è più che comprensibile”.

Ho cercato di escogitare un modo per rivedere Elise. Senza dubbio, adesso aveva bisogno di riposare, ma più tardi? Qualcuno aveva provveduto a riservarmi una poltrona per lo spettacolo? Forse no. L’idea di presentarmi alla porta della sala ed essere respinto mi ha dato i brividi. Però poteva succedere.

Ho cercato di ricordare l’intera scena che si era svolta nella carrozza ferroviaria, ma la mia mente continuava a rivedere un solo istante: l’attimo in cui lei, debole e sconfitta, mormorava: — Forse è già accaduto. — L’ho sentita ripeterlo all’infinito, e ogni volta ho tremato al ricordo. Lei mi amava. Avevo raggiunto Elise McKenna, e mi amava.

Quando mi sono svegliato, era buio. Immediatamente allarmato, mi sono guardato attorno. Non vedendo nulla che servisse a capire dove mi trovavo, mi sono seduto sul letto e ho cercato di ricordare dove fosse l’interruttore della luce. Non rammentavo affatto di averlo visto, però intuivo che doveva trovarsi vicino alla porta. Mi sono avviato a tentoni in quella direzione. Ho lasciato scorrere dita incerte sulla parete finché la mia mano non ha incontrato l’interruttore.

La luce mi ha strappato un sospiro di sollievo: ero ancora nel 1896. Il sorriso di soddisfazione è stato spontaneo. Avevo dormito quattro volte senza essere risucchiato nel tempo; quattro volte senza risvegliarmi con l’emicrania.

Poi, ho tremato al pensiero di avere dormito troppo. La rappresentazione poteva già essere iniziata. Era un’ansia inferiore alla prima, però mi sgomentava ugualmente. Dovevo scoprire che ora fosse. “Telefona al bureau”, mi ha suggerito la mente; e io ho risposto con un rimprovero muto. Non mi sarei mai abituato a quell’anno?

Ho aperto la porta. Nel farlo, ho visto sul tappeto due piccole buste, una bianca, una giallo chiaro. Le ho raccolte, ho studiato la grafia. Due grafie molto precise, ordinate. Sulla lettera color burro spiccava un sigillo di ceralacca verde, con la delicata figura di una rosa al centro. Il sigillo ha evocato tutto il fascino discreto di quel periodo, e mi ha commosso perché ho capito che doveva trattarsi di un messaggio di Elise. Guardandolo, mi sono messo a sorridere come uno scolaretto estasiato.

Avrei voluto leggere subito la lettera, ma prima dovevo scoprire che ora fosse. Uscito in corridoio, ho scrutato in entrambe le direzioni. Non c’era in giro anima viva. In preda al panico, ho temuto che tutti fossero già in sala da ballo, ad assistere allo spettacolo. Percorso il corridoio, sono uscito sulla balconata.

Il cortile aperto era di nuovo una terra fatata di luci multicolori. Nel gelo dell’aria serale che penetrava sotto la camicia, i miei occhi hanno frugato il cortile, e alla fine ho individuato un uomo che lo attraversava. Gli ho lanciato un richiamo. Al mio secondo strillo, l’uomo si è fermato e ha alzato la testa a guardarmi, sorpreso.

Devo essergli parso uno spettacolo sorprendente: in maniche di camicia, con due lettere strette nella mano, i capelli in disordine dopo il sonno. Lui, però, non ha accennato al mio stato pietoso quando gli ho chiesto l’ora. Ha estratto l’orologio dal taschino del panciotto, ha sollevato il coperchio, e mi ha risposto che erano le diciotto, tredici minuti e ventidue secondi. Un tipo molto preciso.

Dopo averlo ringraziato a profusione, sono rientrato nella mia stanza. Avevo tutto il tempo di lavarmi, cenare, e recarmi allo spettacolo. Chiusa la porta, mi sono seduto sul letto e ho aperto per prima la busta bianca. Preferivo tenere per ultimo il messaggio di Elise.

Nella busta c’era un cartoncino bianco, di dieci centimetri per quindici circa, su cui erano stampate queste parole: LA DIREZIONE DELL’HOTEL DEL CORONADO RICHIEDE IL PIACERE DELLA SUA PRESENZA (ciò che segue era scritto a mano) Venerdì 20 novembre 1896, alle 20,30. Sotto, altre parole vergate a mano: Sala da ballo / Il piccolo ministro / con l’interpretazione di Elise McKenna. Ho sorriso, riconoscente. Elise aveva provveduto a invitarmi.

In fretta e furia ho aperto l’altra busta. Ho cercato di non rompere il sigillo, ma non ci sono riuscito. Sì, la lettera era sua; e confesso di essere rimasto a bocca aperta davanti allo splendore della sua grafia. Dove aveva imparato a scrivere con tanta grazia? I miei scarabocchi saranno un insulto per i suoi occhi.

E le sue parole erano molto più esplicite, e colme di sicurezza, di tutto ciò che mi aveva detto a voce. E la mancanza della mia presenza fisica a permetterle tanta libertà d’espressione? Forse, nel 1896, le lettere sono l’unico mezzo che permetta alle donne di esprimere le loro emozioni.

Richard, ti chiedo scusa della busta “disastrata”. [Avevo dimenticato di dire che la busta era un po’ spiegazzata.] È l’unica che abbia. Il che ti dice quanto spesso io scriva a un uomo.

Perdonami se emozione ed espressione sono tutt’uno in questo messaggio. Da quando ci siamo incontrati sulla spiaggia, sto vivendo in una sorta di folie lucide. Ogni mio senso si è affinato, tutto ciò che vedo possiede contorni stranamente definiti; ogni suono è netto e distinto, ogni cosa è vivida ai miei occhi. In breve, da che ti ho incontrato, io “sento” con maggiore intensità.

Ero molto pallida, ieri sera, mentre ti guardavo dopo essere rientrati all’hotel? Temo di sì. Mi pareva di non avere più sangue nelle vene. Mi sentivo debole e irreale; come mi sono sentita, e tu senza dubbio lo saprai, oggi pomeriggio, nella mia carrozza ferroviaria.

Ti confesso che, nonostante questo intensificarsi delle percezioni che il tuo arrivo ha portato nella mia vita, dapprima ho pensato che tu fossi soltanto un cacciatore di fortune molto astuto e capace. Perdona se lo dico! Lo faccio solo perché voglio che tu sappia tutto. Dio abbia pietà della mia natura sospettosa, ma ho addirittura temuto che Marie (la mia guardarobiera, ricordi?) fosse in combutta con te per attirarmi in una trappola. Chiedo scusa cento volte. Preferirei non dirtelo, ma devo essere onesta.

Oggi pomeriggio, quando eravamo assieme, ho sentito una tale felicità fluire in me che le mie emozioni vi sono annegate. Ho ancora questa sensazione adesso, qui nella mia stanza, mentre ti scrivo; anche se le ondate, grazie al cielo, si sono placate, diventando un ruscello calmo, tranquillo.

Nonostante il mio comportamento bizzarro nel corso della nostra passeggiata, sappi che mi è piaciuta. No, è un termine troppo modesto. Sappi che sono rimasta commossa. Al punto che stare lontana da te mi ha colmata di una tristezza in conflitto con la felicità di cui ti parlavo prima. Quanto sono confuse le mie emozioni, in questo pomeriggio.

Continuo a pensare ai miei difetti. Dopo l’estremo rimedio di avere cercato (invano, lo ammetto) difetti in te, ora riesco a vedere soltanto i miei. Sento che dovrei essere una persona molto migliore, per meritare la tua devozione.

Richard, io non ho mai avuto storie romantiche. Te l’ho detto, e lo voglio ripetere per iscritto. Non c’è mai stato nessuno; e ne sono lieta, moltissimo. Non ho mai realmente creduto, nonostante i sogni infantili, che un uomo potesse farmi provare ciò che provo adesso. Mio caro signor Collier, comincio a capire quanto mi sbagliassi.

Le donne come me, costituzionalmente incapaci di votarsi a più di un solo uomo nell’intero corso della vita, possono essere le più felici delle donne, o le più infelici. Io sono entrambe le cose a un tempo. Il fatto che tu mi ami, e che io senta continuamente crescere ciò che provo per te, giustifica la felicità.

La mia fosca immaginazione è responsabile dell’infelicità.

Anche adesso avverto la stranezza del nostro incontro; anche adesso mi chiedo, nel profondo, da dove tu venga. No, prometto di non chiedertelo. Quando sarai pronto, me lo dirai; e, ovviamente, la cosa importa meno del fatto che tu sia qui. Da oggi in poi, crederò con tutta me stessa nei miracoli.