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Gavin guarda il fiore. Accorre un.uomo, lo afferra, lo butta a terra. Raccoglilo, se hai il coraggio! urla. Dishart lo raccoglie e lo infila nel risvolto della giacca, prima di andarsene. Sipario. Fine del primo atto.

Intervallo. Sto pensando alla sua recitazione. È come la sua personalità. Quanta sincerità. Sobrietà. Niente fronzoli. Temevo potesse essere come altre attrici: ampollosa, eccessiva. No. Niente trucchi. Non esagera mai. Il suo senso della misura è una meraviglia infinita. È affascinante e deliziosa perché appare così affascinata e deliziata. C’è in lei un’allegria birichina che spumeggia. La sua civetteria si fa viva a sprazzi, inattesa. Riesce sempre a trasmettere il senso di fiducia nel suo potere femminile, la forte (ma tollerante) consapevolezza della fragilità del ministro; è per questo che piace tanto alle signore del pubblico? Ogni suo gesto è netto e delicato. E, di tanto in tanto, si intuisce la vibrazione di qualche arco più profondo, che crea risonanze più remote. Ha tutte le qualità di una grande interprete tragica, su questo non c’è dubbio. In ogni caso, queste qualità emergeranno spontaneamente. Io non avrò alcun merito.

Che altro posso dire? Che per quanto vivida sia la sua interpretazione, c’è sempre la sensazione di qualcosa di più (di molto di più) di non detto? È così. Ho letto in un libro… No, non devo più indugiare su certe cose.

Be’, per una volta. È troppo importante. Quel libro parlava del campo d’energia emesso da attori e attrici; un’estensione della cosiddetta aura. Questo campo d’energia, diceva il libro, può, nelle condizioni giuste (in un rapporto perfetto tra spettatore e interprete), estendersi al punto di avviluppare l’intero pubblico. Lo hanno testimoniato sensitivi, veggenti. Dopo avere visto Elise, posso crederci anch’io.

Ci ha avviluppati tutti.

E adesso io…

Ho smesso di scrivere quando una voce ha pronunciato il mio nome. Guardandomi attorno, ho visto che l’uomo che aveva preso il mio invito mi tendeva un foglio di carta, piegato. — Per lei, signore — ha detto.

L’ho ringraziato. Ho preso il foglio, e lui se n’è andato. Ho rimesso carta e penna nella tasca interna della giacca, ho aperto il foglio e letto:

Collier, devo parlarle immediatamente della salute della signorina McKenna. È questione di vita o di morte, per cui non si tiri indietro. La aspetto nell’atrio.

W.F. Robinson.

Il messaggio mi ha scosso. “Una questione di vita o di morte?” Preoccupato, mi sono alzato e sono corso alla porta. Che problemi poteva avere Elise? L’avevo appena vista in palcoscenico, e appariva in forma smagliante. Però il suo benessere era la cosa che stava più a cuore a Robinson.

Nell’atrio, mi sono guardato attorno. Nessun segno di Robinson. Ho preso ad aggirarmi tra la folla, cercandolo. Forse mi aspettava in un angolo. Ho scrutato in ogni direzione. Il cielo abbia compassione della mia ingenuità: non ho afferrato l’antifona nemmeno quando due uomini robusti sono confluiti su me. — Collier? — ha chiesto uno dei due. Un uomo anziano, con denti gialli, sporgenti, e un paio di baffi cadenti.

— Sì?

Le sue dita si sono strette con forza terribile sul mio braccio destro. — Facciamo quattro passi.

— Come? — ho borbottato, fissandolo. Ma fino a che punto si può essere ingenui? Non avevo ancora capito.

— Facciamo “quattro passi” — ha ripetuto lui, aprendo le labbra in un sorriso tetro. Poi ha cominciato a spingermi verso l’ingresso. L’altro uomo mi ha afferrato il braccio sinistro in maniera altrettanto dolorosa.

La mia prima reazione è stata lo stupore; la seconda, l’ira: con Robinson per avermi tratto in inganno, con me stesso per essere stato tanto credulone. Ho tentato di liberare le braccia, ma la morsa era implacabile. — Io non farei resistenza — ha borbottato l’uomo più anziano. — Lo rimpiangeresti.

— Poco, ma sicuro — ha detto l’altro. L’ho guardato. Aveva all’incirca la mia età, senza barba, con guance rosse e screpolate. Come il suo socio, era di corporatura robusta; il vestito gli andava stretto. Mi ha scrutato con occhi d’un azzurro molto chiaro. — Vieni con noi e stai calmo — ha aggiunto.

Io ho provato una nuova reazione: incredulità, divertimento. Era troppo ridicolo. — Lasciatemi andare — ho ordinato. Avevo quasi voglia di ridere.

— Tra un po’ non sarai più così allegro — ha detto l’uomo più anziano. A quelle parole, è svanita ogni traccia di divertimento. L’ho fissato. Il suo fiato sapeva di whisky.

Eravamo quasi alla porta d’ingresso. Una volta fuori, non avrei avuto una sola possibilità. — Lasciatemi andare, o mi metto a urlare — ho detto. — “Adesso”.

Il respiro mi si è bloccato in gola quando l’uomo più giovane mi si è stretto contro. Aveva la mano infilata nella tasca della giacca, e io ho sentito qualcosa di duro contro il fianco. — Un solo strillo, e la tua vita è finita, Collier.

Ho scrutato a bocca aperta il suo volto impassibile, mentre continuavamo a procedere. “Non sta succedendo davvero”, ho pensato. Era l’unica difesa che la mia mente sapesse evocare. Un melodramma tanto eccessivo doveva essere irreale. Rapito da un paio di gorilla corpulenti? Assurdo. Incredibile.

Però dovevo crederci, perché stava accadendo: la porta si apriva, i due mi guidavano fuori, sul portico. Una nuova, improvvisa reazione. Avevo percorso settantacinque anni per stare con Elise, e adesso lasciavo che finisse così? — No — ho detto. Ho dato strattoni violenti e sono riuscito a liberare il braccio sinistro. — Non mi…

La frase è stata interrotta da un urlo strangolato: il “mio” urlo, quando l’uomo più anziano si è girato di scatto verso me e mi ha percosso l’addome con un pugno di ferro. Gli sono crollato addosso, piegato in due. Strade di dolore si sono intrecciate nel mio petto e nello stomaco; il buio ha preso a pulsare davanti ai miei occhi. Ho sentito i due sollevarmi da terra, trascinarmi giù per i gradini. In maniera vaga, la coscienza mi ha informato della presenza di altre persone, e ho tentalo di chiedere aiuto, ma non avevo più voce. Non riuscivo a parlare.

Poi siamo arrivati sul vialetto, ci siamo diretti verso la spiaggia. Il vento freddo mi ha ridato la vita. Ho inspirato aria. — …Dovuto farlo, Collier — ho udito. — Un errore idiota.

— Lasciatemi andare — ho detto. Per qualche secondo ho pensato che piovesse, poi ho capito che il colpo mi aveva portato alle lacrime. — Lasciatemi “andare”.

— Non ancora — ha ribattuto il più anziano.

Adesso eravamo sul sentiero ad assi di legno, diretti allo stabilimento balneare. Ho tentato di schiarirmi le idee. Doveva esserci una via d’uscita. Ho deglutito, tossito. — Se si tratta di soldi — ho detto — vi pagherò più di Robinson.

— Noi non conosciamo nessun Robinson — ha replicato il più giovane, serrando le dita sul mio braccio.

Gli ho creduto per qualche momento, poi mi è tornato alla mente il messaggio che mi aveva trascinato in quella situazione. — Sì che lo conoscete. E vi dico che vi pagherò più di lui se mi…

— Adesso facciamo una passeggiata, giovanotto — mi ha interrotto l’uomo più anziano.

Mi sono girato a guardare l’hotel, e un’ondata di panico mi ha invaso. — Vi prego, non fatelo.

— “Lo stiamo facendo”. — Il tono del più anziano mi ha dato i brividi. All’improvviso, ho capito quanto fosse diverso da me. Inimicizia o no, Robinson possedeva aspetti nei quali potevo identificarmi. Quell’uomo e il suo socio mi erano completamente estranei; rappresentavano un tipo umano del 1896 che non aveva nulla in comune con me. Il vecchio poteva anche essere di Marte, tanto il suo atteggiamento mi era alieno. Per quello che ne sapevo, poteva essere capace di uccidermi. L’idea era scioccante. Facendomi forza, gli ho chiesto dove volesse portarmi.