Dopo di che Ruiz-Sanchez sarebbe rimasto solo, senza il minimo alleato. Pareva che la stessa volontà di Dio comandasse che egli fosse spogliato di tutto, e che si presentasse davanti alla Porta Santa a mani vuote… privo perfino del conforto di Giobbe: sì, privo perfino del peso della fede.
Perché Egtverchi avrebbe certamente superato l’esame. Era già virtualmente in libertà… e molto più vicino ad essere un cittadino rispettabile di quanto non lo fosse lo stesso Ruiz-Sanchez.
CAPITOLO DODICESIMO
Fu nella residenza sotterranea di Lucien le Comte des Bois d’Averoigne che fu data la festa in onore dell’ingresso nel mondo di Egrverchi, evento che complicò in modo notevole la vita già istericamente agitata di Aristide, maestro di cerimonie della Contessa. Ordinariamente, una festa del genere non avrebbe offerto nessuna difficoltà oltre ai semplici problemi tecnici che gli erano familiari e portavano il personale a quel culmine di frenesia che egli considerava il massimo di efficienza; ma dover preventivare la presenza addizionale di un mostro alto tre metri costituiva un affronto alla sua coscienza come al suo senso artistico.
Aristide, nato Michele di Giovanni al tempo del barbaro contadiname di una Sicilia pre-rifugio, era un drammaturgo che conosceva bene il complesso palcoscenico su cui doveva lavorare. La dimora newyorkese del Conte si componeva di parecchi piani sotterranei. La parte di essa in cui si dava la festa spuntava di tutto un piano sopra la superficie di Manhattan, quasi che la parte sepolta della città stesse uscendo dalla tana del suo letargo o non avesse ancora finito di scavarla per sprofondarvi. La costruzione, aveva scoperto Aristide, era stata in origine una rimessa tramviaria, un brutto e squallido edificio di mattoni rossi costruito nel 1887, quando i tram erano la più moderna e promettente innovazione in materia di comunicazioni urbane. I binari, con il solco nel mezzo, giacevano ancora nel pavimento asfaltato, con soltanto una patina superficiale di ruggine: l’acciaio non si arrugginisce molto, in meno di due secoli. Al centro del piano terreno si trovava un enorme ascensore a vapore di vecchio tipo, con una gabbia di ferro battuto, che un tempo serviva a calare le vetture nel sottosuolo per essere tenute in riserva. Tanto a livello del suolo quanto più in basso, le rotaie correvano in tutte le direzioni e i loro scambi complicati finivano sempre per portare ai segmenti di binari entro l’immensa cabina dell’ascensore. Aristide, dapprima stupito alla scoperta di quella rete sotterranea, aveva prontamente imparato a utilizzarla nel modo migliore.
I ricevimenti della Contessa, grazie alla genialità di Aristide, erano ora limitati nella loro fase più convenzionale ai tre piani superiori; ma Aristide aveva impiantato un piccolo treno composto di quattordici vagoncini a due poltrone, il quale serpeggiava placidamente sulle rotaie tramviarie, raccogliendo come passeggeri coloro che erano già annoiati di sole ciarle e bevande, e spingendosi con un rombo leggero fino all’ascensore, per essere calato giù — tra sibili acuti e una gran nuvola di vapore, che la Contessa era molto sofistica quanto all’apparente autenticità delle sue anticaglie — al piano inferiore, dove presumibilmente succedevano cose più interessanti.
Come drammaturgo, Aristide inoltre conosceva bene il suo pubblico: rientrava nei suoi doveri far sì che tutto ciò che accadeva da basso fosse più interessante di ciò che s’era visto in alto. E conosceva anche le sue dramatis personae: la sapeva più lunga infatti, sugli ospiti abituali della Contessa, di quanto ne sapessero loro stessi, e gran parte di ciò che sapeva sarebbe stato di natura nettamente deleteria, s’egli fosse stato un tipo ciarliero. Ma Aristide era un artista; ignorava la corruzione, il cui stesso concetto era per lui impensabile come quello del plagio (eccetto che il plagio da se stesso, che è il modo con cui si superano le cadute d’ispirazione). Infine, sempre come artista, egli conosceva bene la sua padrona; la conosceva al punto di poter giudicare quante feste dovessero passare prima che gli fosse possibile rischiar di ripetere un Effetto, una Scena, una Sensazione.
Ma che cosa poteva fare un uomo con un rettile-canguro alto tre metri e cinquanta?
Dal luogo dove stava, un recesso discreto a colonnato nell’atrio del pianterreno, Aristide osservava i primi invitati avviarsi verso la sala del cocktail ufficiale, uno dei suoi anacronismi favoriti, che la Contessa sembrava disposta a permettergli di ripetere ogni anno. Richiedeva poche preparazioni: soltanto intrugli assurdi e pressoché letali, ma richiedeva che ospiti e personale indossassero costumi ridicoli. Però, il curioso rigore dei costumi faceva un simpatico contrasto con l’alleggerimento della psiche indotto dai liquori.
Era ancora presto perché vi fosse molta gente: c’era la Senatrice Sharon, che agitava gaiamente le sopracciglia enormi a salutare gli altri invitati, rifiutando ogni bibita con ostentazione, sapendo che il suo buon amico Aristide aveva riunito per lei, al piano di sotto, cinque robusti giovani che lei non aveva ancora mai visto; c’era poi il Principe William d’East Orange, un giovane la cui disgrazia era di non avere vizi e che tornava sempre a prendere il trenino serpeggiante nella speranza ogni volta di scoprirne uno che gli andasse a genio; al suo fianco, stava il dottor Samuel P. Shovel, medico, uomo gioviale, dalle guance rubizze e i capelli candidi, gran sacerdote di psiconetologia, «La Nuova Scienza dell’Inconscio», uno dei beniamini di Aristide, in ragione della semplicità dei suoi gusti: il dottor Shovel, infatti, non desiderava niente di più complicato del dare un buon pizzicotto nelle parti molli.
Faulkner, il maggiordomo capo, si avvicinò rigidamente ad Aristide. Faulkner regnava sul personale della Contessa come un despota orientale, ma non contava più niente appena Aristide era presente.
— Devo far servire gli embrioni al vino? — domandò Faulkner.
— Non siate così cieco e sciocco — disse Aristide. Aveva appreso le sue prime nozioni d’inglese da telefim sentimentali a tre dimensioni, cosa che dava alla sua conversazione ordinaria toni decisamente bizzarri; lui se ne rendeva pienamente conto, del resto, e ne faceva una delle sue armi principali per manovrare i tirapiedi, che non sapevano mai se li insolentisse per puro sport o perché realmente arrabbiato. — Scendete al piano inferiore, Faulkner. Sa avrò bisogno di voi, cosa che non credo, vi chiamerò.
Faulkner fece un lieve inchino e scomparve. Lievemente seccato per l’interruzione, Aristide riprese la sua ispezione dei primi arrivati.
C’era, naturalmente, anche la Contessa, che per il momento non gli poneva nessun problema. Il suo trucco dorato era ancora intatto, e i gioielli mobili, dalle grotticelle che Stefano era riuscito a creare nei suoi capelli, ammiccavano coi loro occhi di diamanti. C’erano poi i padrini dell’ingresso del mostro lithiano in società, il dottor Michelis e la dottoressa Meid; costoro rischiavano forse di presentare problemi particolarissimi, perché su di loro Aristide non era riuscito a saperne abbastanza per conoscere quali loro gusti personali avrebbero amato vedere soddisfatti ai piani inferiori. Eppure quei due erano gli ospiti chiave: la loro importanza era seconda soltanto alla impossibile creatura stessa. E a questo proposito c’era nell’aria un potenziale esplosivo, come Aristide sapeva con fatale certezza, dato che la impossibile creatura era in ritardo d’oltre un’ora; e la Contessa aveva fatto sapere a tutti i suoi invitati, oltre ad Aristide, che il Lithiano sarebbe stato l’ospite d’onore: metà degli invitati erano venuti soltanto per vedere lui.