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E furono fortunati ad averlo fatto. Mentre stavano centellinando le loro bevande (Michelis aveva nutrito turpi sospetti sul liquore ambrato che era contenuto nel suo bicchiere, ma la sostanza si rivelò non essere altro che dell’onesto brandy, molto gradito) il treno successivo fu salutato da un rombo scrosciante di applausi, mentre tutti si alzavano in piedi.

Egtverchi era arrivato.

C’era una vera turba ora nella sala da cocktail a pianterreno, ma Aristide era tutt’altro che felice; e tra il personale, varie teste erano già cadute. Aristide aveva in sé come un sesto senso, delicatissimo, che non mancava mai di avvertirlo quando una festa cominciava a inacidire, ed era già da molto che quel sesto senso aveva acceso il rosso del segnale d’allarme. L’arrivo dell’ospite d’onore, in particolare, era stato un fiasco enorme. Non erano presenti né la Contessa, né i padrini del mostro, né uno degli ospiti realmente importanti che erano stati invitati espressamente per l’ospite d’onore, e l’ospite d’onore stesso aveva costretto Aristide a far vedere, davanti a tutto il personale, di essere in preda al terrore.

Aristide si vergognava atrocemente della sua paura, ma ormai non c’era più nulla da fare. Lo avevano avvertito, sì, che si trattava di un mostro, ma non di un mostro simile: una creatura di oltre tre metri e cinquanta, un rettile che camminava più come un uomo che come un canguro, con enormi mascelle zannute sorridenti, bargigli che cambiavano continuamente di colore, mani che sembravano capaci di sminuzzare chicchessia come un pollo, una coda ondeggiante che continuava a spazzar via i vassoi dalle tavole e soprattutto una risata a raglio d’asino e una possente voce da tenore che parlava inglese con una perfezione così fredda e puntigliosa da far sì che Aristide si sentisse uno zotico siciliano appena sbarcato in panni d’emigrante. E all’ingresso del mostro, c’era stato il solo Aristide per dargli il benvenuto…

Un treno giunse sferragliando davanti alla camera di riposo, ma prima che si fermasse, la senatrice Sharon saltò fuori dalla stanza, tutta eccitata, tra uno sfarfallio di ciglia. — Ma guarda quello! — esclamò, stimolata dal quintuplice soccorso che Aristide le aveva fatto coscienziosamente trovare. — Guarda com’è mascolino!

E ciò costituiva un secondo fallimento per Aristide. Uno degli ordini fissi della Contessa era quello di dare alla senatrice il suo divertimento e poi di farla subito riportare al Rifugio, prima che il ricevimento vero e proprio cominciasse. Altrimenti la senatrice avrebbe passato il resto della notte a imporre chiassosamente la sua presenza e a cercare di sedurre ogni celebrità. Se la senatrice Sharon non scompariva all’inizio della serata, soddisfatta di ciò che aveva già incontrato, finiva col far scoppiare qualche scandalo.

Il treno vuoto entrò lentamente nella sala, invitante. Il mostro lithiano lo vide e il suo sorriso si accentuò.

— Ho sempre desiderato essere macchinista di treno — disse in un inglese bizzarro, ma nello stesso tempo più preciso di quel che Aristide poteva sperar di parlare in vita sua. — Così, voi siete il maestro di cerimonie. Buon uomo, ho portato due, tre, vari ospiti di mio gusto. Dov’è la nostra padrona di casa?

Aristide con aria impotente indicò a caso una direzione e l’altissimo rettile, con un gracchiamento di soddisfazione, salì sulla prima vettura del trenino. S’era appena seduto che la banda si precipitò ad ammucchiarsi dietro di lui. Il treno si avviò con un sobbalzo, dirigendosi verso l’ascensore, che subito poi cominciò a sprofondare fra grandi getti di vapore.

Era fatta. Aristide aveva lasciato che l’ingresso solenne del mostro facesse cilecca. E se anche aveva dei dubbi in merito, si dissiparono presto: non più di dieci minuti dopo, l’espressione sarcastica di Faulkner lo snobbava inequivocabilmente. Ecco che ci si guadagna ad essere un artista fedele alla sua padrona, si disse amaramente. Il giorno dopo, si sarebbe considerato fortunato se lo avessero preso come sguattero in una mensa collettiva, incartamenti ricattatori o no. E tutto questo perché? Perché non aveva saputo prevedere con esattezza l’arrivo di una creatura che non era nemmeno nata sulla Terra.

Si avviò con passo deciso, tragico, verso la sala di riposo, pestando i piedi e dando vigorose gomitate a quegli assistenti che avevano l’ingenuità di farsi trovare sulla sua strada. Non poté pensare ad altro che a soprintendere personalmente alla ripresa fisica di un certo dottor Martin Agronski, lo sconosciuto invitato che sembrava vagamente connesso al Lithiano. Ma non si faceva illusioni. Il giorno dopo, il celebrato Aristide, factotum artistico della Contessa des Bois d’Averoigne, avrebbe potuto ringraziare Dio e baciare in terra se si fosse trovato nei panni di Michele di Giovanni, oriundo delle malariche piane di Sicilia.

Michelis si pentì di avere preso il trenino non appena capì la costituzione del piano sotterraneo, perché comprese di non poter vedere l’arrivo di Egtverchi. Fondamentalmente, il piano era diviso, mediante pareti a prova di suono, in vari piccoli gruppi: alcuni erano solo leggermente più brilli e disinibiti del ricevimento ufficiale, ma gli altri si davano a tutto uno spettro di attività frenetiche. Lui e Liu compirono il giro completo prima che riuscisse a escogitare il modo per scendere dal treno; ogni volta che si sentiva pronto a tentare la discesa, il treno cominciava ad accelerare in modo imprevedibile, a scatti, dando l’impressione di un ottovolante nel cuore della notte.

Comunque, poterono vedere l’unico arrivo che contava. Egtverchi, quando il trenino si fermò, dopo essere emerso dall’ultimo bagno di gas profumanti, apparve ritto nella vettura di testa, da cui discese coi propri mezzi. Nelle cinque vetture alle sue spalle, essi pure in piedi, stavano dieci giovanotti quasi identici, indossanti uniformi nere e verde lucertola, con bottoni d’argento, con le braccia incrociate sul petto, impassibili e severi, gli occhi fissi davanti a sé.

— Ossequi — disse Egtverchi, con una profonda riverenza, che le sue braccia sauriane, piccole e sproporzionate, rendevano comica e insieme insolente. — Contessa, sono felice di fare la vostra conoscenza. Siete protetta da molti cattivi odori, ma li ho dominati tutti.

La folla applaudì. La risposta della Contessa si perse nel baccano, ma evidentemente lei gli aveva ricordato di essere per natura immune ai fumi e sentori che invece disturbavano i Terrestri, perché Egtverchi ribatté vivacemente, con voce contrariata:

— M’aspettavo una risposta del genere, e mi spiace di avere colto nel segno. Per il puro tutte le cose sono pure… Avete mai visto giovani più solidi e incrollabili? — Indicò con un gesto i suoi dieci seguaci. — Ma naturalmente ho barato. Ho tappato loro le nari con dei filtri, così come Ulisse riempì di cera le orecchie dei suoi marinai, perché non udissero il canto delle sirene. I miei uomini non temono nulla; credono che io sia un genio.

Con aria da cospiratore, il lithiano materializzò un fischietto d’argento, e ne trasse una nota acuta e gorgheggiante, del tutto in contrasto col gesto che l’aveva preceduta. I dieci giovani guerrieri immediatamente crollarono. Tutta la prima fila della folla poté toccare col piede i loro corpi inerti, affronto che essi subirono con torpida indifferenza.

— Ubriachi fradici — disse Egtverchi con un tono di paterna disapprovazione. — Inevitabile. In realtà non ho tappato loro le nari per nulla. Mi sono limitato a impedire alla loro formazione reticolare di comunicare al cervello i fumi della Contessa, fino al mio segnale. Ora essi hanno avuto tutte le allucinazioni d’un colpo; non è un peccato? Madame, abbiate la bontà di farli portare via, tanta dissolutezza m’imbarazza. Dovrò instaurare una disciplina ferrea.

La Contessa batté le mani. — Aristide! Aristide! — Manipolò la minuscola radiotrasmittente nascosta fra i suoi capelli, ma non ottenne risposta. La sua espressione bruscamente passò dalla gioia infantile a un furore puerile.