Tuttavia, un rifiuto è sempre un rifiuto. Nonostante tutta la gentilezza di Gimar, Shevek si allontanò da lei con l’animo dolente, incollerito.
Il clima era molto caldo. Non c’era frescura se non nell’ora che precedeva l’alba.
L’uomo chiamato Shevet si recò da Shevek una sera, dopo il pasto. Era un tizio massiccio, piacente, di trent’anni. — Sono stufo di venire confuso con te — disse. — Fatti chiamare in qualche altra maniera.
Quella rozza aggressività avrebbe messo nell’imbarazzo Shevek, tempo prima. Ora egli, semplicemente, rispose per le rime. — Cambia tu il tuo nome, se non ti va — gli disse.
— Tu sei uno di quei piccoli profittatori che vanno a scuola per non sporcarsi le mani — disse l’uomo. — Ho sempre desiderato togliere un po’ di merda di dosso, a uno di voi.
— Non darmi del profittatore! — esclamò Shevek; ma non era una battaglia a parole. Shevet gli assestò un pugno che lo fece piegare in due. Shevek riuscì a restituirgli qualche colpo, poiché aveva le braccia lunghe e più grinta di quel che si fosse aspettato l’avversario: ma era in svantaggio. Varie persone si fermarono a guardare, videro che era un combattimento onesto ma non particolarmente interessante, e proseguirono per la loro strada. Essi non erano né offesi né richiamati dalla semplice violenza. Shevek non aveva chiesto aiuto, e dunque la cosa riguardava soltanto lui. Quando rinvenne era disteso sulla propria schiena, nella terra grigia, in mezzo a due tende.
Gli rimasero un ronzio nell’orecchio destro per un paio di giorni, e una spaccatura al labbro che richiese molto tempo per rimarginarsi, a causa della polvere che irritava le ferite. Egli e Shevet non si parlarono più. Lo vide da lontano, ad altri bivacchi da campo, privo di animosità. Shevet gli aveva dato ciò che aveva da dargli, ed egli aveva accettato il dono, anche se per molto tempo non gli accadde di valutarlo o di considerarne la natura. Quando lo fece, era indistinguibile da un altro dono, da un’altra tappa della sua crescita. Una ragazza, che si era unita recentemente alla sua squadra di lavoro, giunse a lui come era giunto Shevet, nell’oscurità, mentre lasciava il bivacco, e il suo labbro non era ancora guarito… Non poté mai ricordare cosa la ragazza avesse detto; l’aveva provocato; anche questa volta egli rispose semplicemente. Uscirono nella pianura, quella notte, e laggiù lei gli diede la libertà della carne. Questo fu il suo dono, ed egli l’accettò. Come tutti i bambini di Anarres, egli aveva avuto liberamente esperienze sessuali con bambine e bambini, ma tutti loro erano piccoli; non era mai andato più in là del piacere in cui credeva consistesse tutta la cosa. Beshun, esperta in delizie, lo condusse nel cuore della sessualità, dove non esiste né rancore né inettitudine, dove i due corpi che lottano per unirsi cancellano il momento, nella loro lotta, superano la personalità e il tempo.
Era tutto facile, adesso, così facile, e bello, nella polvere tiepida, alla luce delle stelle. I giorni erano lunghi, caldi, e luminosi, e la polvere aveva l’odore del corpo di Beshun.
Ora lavorava in una squadra di piantatori. I camion erano giunti dal Nordest pieni di minuscoli alberi: migliaia di piantine da collocare a dimora, nate nelle Montagne Verdi, dove pioveva fino a mille millimetri l’anno, nella cintura delle piogge. Ed essi piantarono i piccoli alberi nella polvere.
Quando ebbero terminato, le cinquanta squadre che avevano lavorato nel secondo anno del progetto si allontanarono sui camion scoperti, e mentre se ne andavano si guardarono alle spalle. Videro cosa avevano fatto. C’era una spolverata di verde, molto debole, sul pallore delle curve e delle terrazze del deserto. Sulla terra morta si stendeva, assai leggermente, un velo di vita. Essi salutarono, cantarono, urlarono da un camion all’altro. Negli occhi di Shevek brillarono delle lacrime. Pensò: Ella fa nascere la foglia verde dalla pietra… Gimar era stata inviata nuovamente agli Altipiani del Sud, molto tempo prima. — Che cos’è che ti fa fare queste smorfie? — gli chiese Beshun, stringendosi a lui sul camion che sobbalzava e passando la mano avanti e indietro sul suo braccio duro, imbiancato dalla polvere.
— Le donne — disse Vopek, nello scalo dei camion, a Stagno del Sudovest. — Le donne pensano che tu sia di loro proprietà. Nessuna donna può essere realmente un’Odoniana.
— E Odo stessa? …
— Teoria. E niente vita sessuale dopo l’uccisione di Asieo, vero? Comunque ci possono essere sempre delle eccezioni. Ma per la maggior parte delle donne, l’unica relazione con un uomo è avere. Avere o essere avuta.
— E tu credi che siano differenti dagli uomini, in questo?
— Non lo credo: lo so. Ciò che vuole un uomo, è la libertà. Ciò che vuole una donna, è la proprietà. Ti può lasciar andare soltanto se può barattarti con qualcosa d’altro. Tutte le donne sono proprietariste.
— Be’, è una gran brutta cosa da dire su metà della razza umana — disse Shevek, chiedendosi se l’uomo avesse ragione. Beshun aveva pianto fino a star male quando egli era stato incaricato di nuovo al Nordovest; aveva gridato e pianto, e aveva cercato di fargli dire che non poteva vivere senza di lei; aveva ripetuto che non poteva vivere senza di lui e che dovevano diventare compagni. Compagni, come se lei fosse stata capace di rimanere sei mesi di fila con lo stesso uomo!
La lingua parlata da Shevek, l’unica che conosceva, non aveva termini possessivi per l’atto sessuale. In pravico non aveva senso per un uomo dire che aveva «avuto» o «posseduto» una donna. La parola più vicina come significato a «fottere», e provvista anch’essa di un uso secondario come ingiuria, era un termine preciso: significava violentare. Il verbo solitamente usato, e che richiedeva un soggetto plurale, si può tradurre soltanto con un termine neutro come copulare. Significa qualcosa fatto da due persone, e non fatto, o avuto, da una persona sola. Questa cornice di parole non poteva contenere la totalità dell’esperienza, esattamente come ogni altra cornice, e Shevek avvertiva l’esistenza di un’area non compresa in essa, anche se non era perfettamente certo della natura di tale area. Certo egli aveva sentito di avere Beshun, di possederla, in alcune di quelle notti stellate, nella Polvere. Ed ella aveva sentito di possedere lui. Ma entrambi si erano sbagliati; anche Beshun, nonostante la sua sentimentalità, lo sapeva; alla fine gli aveva dato, sorridendo, il bacio dell’addio, e l’aveva lasciato andare. Lei non lo aveva avuto. Il corpo stesso di lui, nel suo primo scoppio di passione sessuale adulta, lo aveva posseduto, certo… e aveva posseduto lei. Ma la cosa era conclusa. Era successa. Non sarebbe mai più accaduto (egli pensava, a diciott’anni, seduto con un amico di viaggio nello scalo dei camion di Stagno a mezzanotte, davanti a un bicchiere di succo di frutta dolce e sciropposo, in attesa di trovare un passaggio su un convoglio diretto a nord), non sarebbe mai più potuto accadere. Molte cose sarebbero ancora successe, ma egli non si sarebbe fatto cogliere fuori guardia una seconda volta, stendere a terra, sconfiggere. La sconfitta, la resa, avevano le loro estasi. Forse Beshun non avrebbe mai cercato una gioia esterna ad esse. E perché avrebbe dovuto farlo? Era stata lei, nella sua libertà, a liberare lui.
— Sai, non sono d’accordo — disse a Vopek, un uomo dal viso affilato, che faceva il chimico agricolo ed era diretto ad Abbenay. — Io penso che siano soprattutto gli uomini, coloro che devono imparare ad essere anarchici. Le donne invece non devono impararlo.
Vopek scosse il capo. — Si tratta dei figli — disse. — Avere bambini. Le rende proprietariste. Non vogliono rinunciare. — Sospirò. — Un contatto e via, fratello, questa è la regola. Non lasciarti mai prendere in proprietà.
Shevek sorrise e sorbì il succo di frutta. — No di certo — disse.
Era una gioia ritornare all’Istituto Regionale, rivedere le basse alture ricoperte a macchie da cespugli di holum dalle foglie color del bronzo, gli orti, i domicili, i dormitori, le officine, le aule, i laboratori tra cui era vissuto da quando aveva tredici anni. Per lui, il ritorno avrebbe avuto sempre la stessa importanza del viaggio di partenza. Andare via non gli era sufficiente: gli bastava soltanto a metà, ed egli doveva tornare indietro. Forse, in questa tendenza, si adombrava già la natura dell’immensa esplorazione ch’egli avrebbe compiuto in direzione dei margini del comprensibile. Probabilmente non si sarebbe mai avviato lungo quell’impresa pluriennale se non avesse avuto la fonda certezza che fosse possibile il ritorno, anche se egli stesso non fosse dovuto ritornare: che in realtà nella natura stessa del viaggio, come in una circumnavigazione del globo, era implicito il ritorno. Non scenderai due volte allo stesso fiume, né potrai tornare nuovamente a casa. Ed egli lo sapeva: anzi, era questa la base della sua visione del mondo. Eppure, da una simile accettazione della transitorietà, egli aveva sviluppato la sua vasta teoria, in cui ciò che è più mutabile veniva mostrato essere più pieno di eternità, e in cui la tua relazione con il fiume, e la relazione del fiume con te, e con se stesso, risulta essere insieme più complessa e più rassicurante di una mera mancanza di identità. Tu puoi davvero tornare a casa, così afferma la Teoria Temporale Generale, purché tu comprenda che «casa» è un luogo in cui non sei mai stato.