Egli era lieto, dunque, di tornare al luogo che, entro i termini in cui egli ne aveva avuta, o desiderato, una, si avvicinava maggiormente a una casa. Ma trovò i suoi amici, laggiù, alquanto privi di esperienza. Egli era maturato molto, nell’anno precedente. Alcune delle ragazze si erano tenute alla pari con lui, o l’avevano superato: erano diventate donne. Egli si limitò, comunque, ad avere contatti estremamente cauti e formali con le ragazze, poiché non cercava, ora come ora, un’altra dose di sesso; aveva altro da fare. Notò che anche le ragazze più brillanti, come ad esempio Rovab, si comportavano in modo altrettanto cauto; nei laboratori, nelle squadre di lavoro e nelle stanze comuni del dormitorio si comportavano come buone amiche, ma niente di più. Le ragazze intendevano completare il loro addestramento e cominciare le ricerche o trovare un incarico di loro piacimento prima di avere figli; non si sentivano più soddisfatte dalle sperimentazioni sessuali dell’adolescenza. Desideravano una relazione matura, non una relazione sterile; ma non ora, non ancora.
Queste ragazze erano buone colleghe, amichevoli e indipendenti. I ragazzi dell’età di Shevek, invece, parevano essersi fermati al limitare di una fanciullezza che diventava un po’ lisa e arida. Erano iper-intellettuali. Non parevano intenzionati a dedicarsi né al lavoro né al sesso. A sentir parlare Tirin, pareva che fosse stato lui a inventare la copulazione, ma tutte le sue relazioni erano con ragazze di quindici o sedici anni; si ritraeva da quelle della sua età. Bedap, che non era mai stato molto attivo dal punto di vista sessuale, accettava l’omaggio di un ragazzo più giovane, che nutriva un’infatuazione idealistico-omosessuale nei suoi riguardi, e tanto gli bastava. Pareva non prendere nulla sul serio, era divenuto ironico e misterioso. Shevek si sentì isolato dalla sua amicizia. Nessuna amicizia resisté: anche Tirin era troppo egocentrico, e negli ultimi tempi troppo capriccioso, per ricostituire l’antico sodalizio… se Shevek avesse avuto l’intenzione di ricostituirlo. Ma, in realtà, Shevek non ne aveva l’intenzione. Diede il benvenuto all’isolamento, con tutto il cuore. Non pensò mai che il riserbo incontrato in Bedap e Tirin potesse essere una reazione; che il suo carattere, gentile ma ormai già eccezionalmente ermetico, potesse creare intorno a sé un suo proprio ambiente circostante: un ambiente che richiedeva o una grande forza, o una grande devozione, per farsi sopportare. In verità, l’unica cosa notata da Shevek fu ch’egli, finalmente, aveva tempo per lavorare.
Giù nel Sudest, dopo essersi assuefatto alla continua fatica fisica, e dopo avere smesso di sprecare il cervello sulle lettere in codice e di sprecare lo sperma in polluzioni notturne, gli erano cominciate a venire delle idee. E adesso era libero di lavorare su di esse, per vedere se contenevano qualcosa d’importante.
Il fisico anziano dell’Istituto si chiamava Mitis, ed era una donna. Ella non dirigeva in quel momento i corsi di fisica, poiché tutti i lavori amministrativi rotavano anno per anno tra i venti incaricati permanenti, ma lavorava già da vent’anni laggiù, e tra tutti aveva la miglior mente. C’era sempre una sorta di spazio psicologico vuoto intorno a Mitis, come l’assenza di folla intorno alla cima di una montagna. La mancanza di ogni tipo di accentuazione dell’autorità, e di ogni tipo di misure per farla rispettare, rendevano evidente l’autorità quando ci si trovava davvero alla sua presenza. Ci sono persone in cui l’autorità è innata; certi imperatori hanno davvero i vestiti nuovi.
— Ho inviato il tuo articolo sulla Frequenza Relativa a Sabul, ad Abbenay — disse a Shevek nel suo modo brusco e amichevole. — Ti interessa la risposta?
Spinse sul piano del tavolo un pezzo stracciato di carta; evidentemente si trattava di un angolo di un foglio più grande. Sopra, in minuscole lettere tracciate a penna, c’era un’equazione:
Shevek si appoggiò alla superficie del tavolo con le mani e osservò il pezzo di carta, con lo sguardo fisso. Aveva gli occhi chiari, e la luce proveniente dalla finestra li colmava in modo da farli parere trasparenti come l’acqua. Aveva diciannove anni. Mitis ne aveva cinquantacinque. E ora lo osservava con compassione e ammirazione.
— Ecco cosa mancava — disse lui. La sua mano incontrò una matita sulla tavola. Cominciò a scrivere sul frammento di carta. Mentre scriveva, il suo volto pallido, inargentato di peluria corta e sottile, divenne rosso.
Mitis aggirò silenziosamente il tavolo per andarsi a sedere. Aveva disturbi circolatori alle gambe, e non poteva stare in piedi a lungo. Quel movimento disturbò Shevek. Egli alzò gli occhi, con un’espressione di fastidio nello sguardo.
— Posso finirlo in un giorno o due — disse.
— Sabul desidera vedere i risultati, quando avrai finito.
Ci fu una pausa. Il colore di Shevek tornò normale, ed egli ridivenne consapevole della presenza di Mitis, ch’egli amava molto. — Perché hai mandato a Sabul quel mio articolo? — le chiese. — Con quel buco dentro! — Sorrise; il piacere di avere colmato il buco logico del ragionamento lo rendeva raggiante.
— Pensavo che potesse trovare il punto dove ti sbagliavi. Io non c’ero riuscita. E inoltre, volevo fargli vedere cosa stai facendo… Ti chiederà di andare laggiù ad Abbenay, sai.
Il giovanotto non rispose.
— Tu, vuoi andare?
— Non ancora.
— Così pareva anche a me. Ma devi andare. Per i libri, per le menti che potrai trovare laggiù. Non sprecherai la tua intelligenza in un deserto! — Mitis parlò con passione. — È tuo dovere cercare il meglio, Shevek. Non permettere mai a un falso egalitarismo di danneggiarti. Lavorerai con Sabul, è bravo, ti farà lavorare sodo. Ma dovrai essere libero di trovare il filone che desideri seguire. Resta qui ancora una stagione, poi vai. E fai attenzione, ad Abbenay. Mantieniti libero. Ogni centro comporta potere. Tu stai per recarti nel centro di tutto. Io non conosco bene Sabul; non posso dire nulla contro di lui, ma tieni in mente soprattutto una cosa: sarai un uomo suo.
Le forme singolari dei pronomi e aggettivi possessivi erano usate, in pravico, soprattutto come forme enfatiche: l’uso colloquiale le evitava. Un bambino piccolo poteva dire «la mia mamma», ma presto imparava a dire «la madre». Per dire: «Questo è il mio e quello è il tuo», in pravico si diceva: «lo uso questo, tu usi quello.» Le parole di Mitis: «Sarai un uomo suo» avevano un suono strano. Shevek la fissò sorpreso.
— Hai un lavoro da fare — disse Mitis. Aveva gli occhi scuri: ora lampeggiarono, come per l’ira. — Fallo! — Poi uscì dalla stanza, poiché un gruppo la attendeva in laboratorio. Confuso, Shevek abbassò gli occhi sul frammento di carta. Pensò che Mitis intendesse dirgli di fare in fretta a correggere le equazioni. Soltanto molto tempo più tardi comprese cosa avesse inteso dirgli in realtà.