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— Bom dia — mormorò Miro, stupefatto.

— Salve — disse lei. — Gli ho chiesto di presentarci.

Appariva quieta e riservata, ma era Miro a sentirsi intimidito. Per molto tempo Ouanda era stata l’unica donna della sua vita, a parte quelle della famiglia, e non aveva una grande scioltezza nei rapporti sociali con l’altro sesso. Nello stesso tempo era consapevole che stava parlando a un ologramma. Uno del tutto convincente, ma pur sempre una proiezione costruita dai laser del terminale.

Lei alzò una mano e se la poggiò leggermente sul petto. — Non sento niente — disse. — Non ho nervi.

Miro si sentì inumidire gli occhi. Autocommiserazione, naturalmente. Il pensiero che con tutta probabilità non avrebbe mai avuto una donna più concreta di quella. Se avesse cercato di toccarne una, la sua carezza sarebbe stata un goffo annaspare. Qualche volta, quando non stava attento, sbavava come un idiota e non se ne accorgeva neppure. Che amante!

— Ma ho gli occhi — disse lei, — e gli orecchi. Io vedo ogni cosa, in tutti i Cento Mondi. Posso vedere il cielo attraverso mille telescopi. Intercetto un trilione di conversazioni al giorno. — Ebbe una risatina. — Sono la più terribile ficcanaso dell’universo.

Poi d’improvviso si alzò, ingrandì e si fece più vicina restando inquadrata nel campo solo a mezzo busto, come se si fosse accostata a un’immaginaria telecamera. — E tu sei uno studentello di una scuola parrocchiale, che nella sua vita non ha mai visto niente all’infuori del suo paese e dei boschi intorno ad esso.

— Non ho avuto molte possibilità di viaggiare — si difese lui.

— Vedremo che si potrà fare — disse lei. — Allora, in quali archivi vuoi cacciare il naso, oggi?

— Come ti chiami? — domandò lui.

— Non hai bisogno di sapere il mio nome — fu la risposta.

— Come faccio a chiamarti?

— Io sarò qui ogni volta che mi vorrai.

— Ma voglio saperlo.

Lei si toccò un orecchio. — Quando ti piacerò tanto che vorrai portarmi con te dovunque andrai, allora ti dirò il mio nome.

Impulsivamente lui le rivelò quello che non aveva mai detto a nessun altro: — Io devo andarmene da questo posto. Verresti con me anche fuori da Lusitania?

Subito lei si fece civettuola, maliziosa. — Ma ci hanno presentati appena cinque minuti fa! Davvero, senhor Ribeira, io non sono quel tipo di ragazza.

— Forse quando ci conosceremo meglio, allora — disse Miro, ridendo.

Lo sgabello e il muro scomparvero, e d’un tratto la ragazza nel campo olografico fu una figura femminile selvaggiamente felina, distesa in posa sensuale sul ramo di un albero. I suoi occhi scintillarono mentre gli mostrava unghie lunghe cinque centimetri e canini acuminati. — Umano, i miei artigli potrebbero strappare la tua bianca pelle — mugolò. La sua voce era lussuria e seduzione, le sue zanne promettevano la morte. — Se ti trovassi da solo, nel mio bosco, potrei sbranarti con un sol bacio.

Lui rise ancora. E in quel momento si rese conto che le aveva parlato dimenticando quale borbottio fossero per gli altri le sue parole. Eppure lei aveva capito tutto; mai gli aveva chiesto: «Cosa? Non ho capito quel che hai detto», o un’altra delle educatissime frasi irritanti che la gente diceva. Lei lo comprendeva, e senza nessuno sforzo apparente.

La ragazza tornò alla forma precedente. — Dunque, che programma hai per oggi?

— Voglio conoscere tutto — disse Miro. — Voglio capire tutto, e mettere ogni cosa insieme per poterne vedere il significato.

— Eccellente progetto — rispose lei. — Il signore vuole che gli faccia da guida turistica nei grandi panorami del sapere universale? Molto bene. Metta la monetina nella fessura, prego.

Ender aveva scoperto che Olhado era un pilota molto migliore di lui. Il ragazzo aveva la vista più acuta, e quando collegava i suoi occhi direttamente al computer di bordo, l’aereo sembrava scegliere la rotta da solo. Ender poteva così dedicarsi all’osservazione.

Quando avevano cominciato quei voli esplorativi il panorama gli era apparso monotono. Praterie sterminate, grandi branchi di cabras e ogni tanto la macchia scura di una foresta in distanza; a queste non si accostavano troppo, naturalmente, poiché non volevano attirare l’attenzione dei maiali che le abitavano. Inoltre, quello che cercavano era una località adatta alla Regina dell’Alveare, e non avrebbe dovuto essere nelle vicinanze di una tribù indigena.

Quel giorno s’erano diretti a ovest, sull’altro lato della Foresta di Rooter, e seguendo un piccolo fiume sinuoso ne raggiunsero la foce. Fecero una breve sosta sulla spiaggia, dove i cavalloni rotolavano lenti sui bassifondi sabbiosi, e Ender assaggiò l’acqua. Salata. Era un mare,

Olhado andò al terminale di bordo e fece comparire una carta di quella regione di Lusitania, individuando la loro posizione rispetto alla Foresta di Rooter e agli insediamenti di maiali più vicini. Il posto era buono, e nelle profondità della sua mente Ender poté sentire l’approvazione della Regina. A due passi dal mare, acqua potabile, molto sole.

Risalirono in volo il fiume, tenendosi a poche centinaia di metri d’altezza, fin dove la riva destra si sollevava in una bassa collina. — C’è un posto adatto all’atterraggio, qui? — chiese Ender.

Olhado trovò uno spiazzo erboso a una cinquantina di metri dalla sommità dell’altura. A piedi scesero poi lungo la sponda del fiume, dove le canne lasciavano il posto all’erba grama. Ogni corso d’acqua di Lusitania aveva quell’aspetto, ovviamente. Ela non aveva avuto difficoltà a chiarire i rapporti genetici fra le specie, appena Novinha le aveva messo a disposizione il suo archivio dandole il permesso di studiare quella materia. Canne che si co-riproducevano con i succiamosche. Grama che si accoppiava con i serpenti d’acqua. Le sterminate distese di capim, le cui vescichette ricche di polline strisciavano sui fertili ventri dei cabras per ingravidarli di un’altra generazione di animali produttori di concime. Intrecciato alle radici e agli steli del capim c’era il tropeço, il rampicante nei cui lunghi tralci Ela aveva trovato gli stessi geni degli xigadora, i volatili che sfruttavano le fibre della pianta per costruirsi i nidi al suolo. Simili schemi di accoppiamento continuavano anche nelle foreste: i vermi macios, che uscivano dai minuscoli baccelli della nerdona rampicante e a loro volta partorivano i semi di quel vegetale. I pulador, piccoli insetti che si accoppiavano con le luccicanti foglie dei cespugli del sottobosco. E soprattutto i inaiali e gli alberi, alla sommità ideale di quella piramide ecologica, piante ed animali mescolati in un solo e ormai immutabile schema vitale.

L’intero elenco della flora e della fauna che popolava le terre emerse di Lusitania era tutto qui. Nei mari c’era molta altra vita, ancora da studiare, ma la Descolada aveva reso il pianeta decisamente monotono.

Tuttavia la sua stessa monotonia conferiva al panorama una dolce e quieta bellezza. I particolari geografici erano quelli di un comune pianeta di tipo terrestre: fiumi, colline, deserti, montagne, oceani e isole. Il tappeto di capim e le chiazze più scure delle foreste erano il verde sottofondo di una sinfonia eterna fatta di venti e di piogge, e di pochi altri rumori. Gli occhi pian piano si assuefacevano a quel silente susseguirsi di ondulazioni, picchi rocciosi, pianure, e corsi d’acqua che scintillavano attraverso l’immutabile tappeto vegetale. Lusitania, come Trondheim, era uno di quei rari mondi in cui l’orchestra della natura suonava ovunque la stessa melodia, invece del continuo e caotico sovrapporsi di canzoni diverse. A Trondheim, però, questo accadeva perché il pianeta era al limite dell’abitabilità, con un clima a stento sopportabile per la vita animale e vegetale. Il clima e i territori di Lusitania cantavano invece un caldo benvenuto agli aratri, alle semenze, agli armenti. Portatemi alla vita, sembrava dire quel panorama.