Выбрать главу

CAPITOLO QUINTO

VALENTINE

Oggi mi sono lasciato sfuggire che Libo è mio figlio. Soltanto Bark mi ascoltava, ma da lì a un’ora tutti i maiali lo sapevano. Si sono riuniti intorno a me, e Salvagem mi ha chiesto se era vero, se sul serio io ero «già» un padre. Poi Salvagem ha messo le mani di Libo nelle mie. D’impulso ho abbracciato il ragazzo, e loro hanno emesso quello schioccante suono che indica sbalordimento e, credo, anche paura. Da quell’istante ho potuto veder che il mio prestigio fra loro era considerevolmente aumentato.

La conclusione è inevitabile. I maiali che abbiamo finora conosciuto non sono un’intera comunità, o forse neppure tipici maschi. Sono un gruppo di giovani tutti sulle soglie dell’età matura. Nessuno di loro ha mai messo al mondo un figlio. Nessuno di loro, per quel che ne abbiamo capito, si è mai neppure accoppiato.

Nelle società umane non ci sono esempi in cui gruppi di giovani maschi si riuniscono in una piccola comunità di fuoricasta, senza potere né prestigio. Non fa meraviglia che parlino delle femmine con quel bizzarro miscuglio di adorazione e disprezzo, un momento prima non osando prendere una decisione senza il loro consenso, e un minuto dopo dicendoci che le donne sono troppo stupide per capire qualcosa, o sono varelse. Finora avevo preso alla lettera queste affermazioni, costruendomi un’immagine mentale delle femmine come un branco di creature animalesche e sciocche. Avevo creduto che i maschi le consultassero un po’ come consultano i loro alberi, interpretando i loro grugniti a mo’ di oracolo, quasi divino ma non più senziente degli intestini di un animale sacrificale.

Ora invece capisco che le femmine sono con ogni probabilità intelligenti quanto i maschi, e per nulla varelse. Le dichiarazioni sprezzanti dei maschi emergono dal loro risentimento di giovani non iniziati, esclusi dai procedimenti riproduttivi e dalle strutture di potere della tribù. I maiali sono stati cauti nei nostri confronti quanto noi nei loro: non ci hanno lasciato contattare né le femmine né i maschi che detengono un potere reale. Eravamo convinti di esplorare il cuore della loro società. Invece, metaforicamente parlando, ci aggiravamo nella loro fogna genetica, fra maschi i cui geni non sono stati ritenuti adatti a procreare nella tribù.

Ma non credo che questo sia esatto. I maiali da me conosciuti sono tutti brillanti, svegli, prontissimi nell’apprendimento. Così svegli che hanno imparato da me molte più cose sulla società umana (casualmente o inevitabilmente) di quante io non ne abbia apprese sulla loro dopo anni di studio. Se questi sono i fuoricasta, allora non posso che augurarmi di poter conoscere un giorno le «mogli» e i «padri».

Nel frattempo non posso fare alcun rapporto ufficiale su questo, perché, lo volessi o meno, ho evidentemente violato la legge. Poco importa che nessuno sarebbe mai riuscito a impedire ai maiali di imparare da noi. Ed è inutile far notare che la legge è sciocca e improduttiva. L’ho certo violata, e se lo si scoprisse mi verrebbe proibito di avere altri contatti con i maiali, il che sarebbe indubbiamente peggio del «contatto minimo» a cui ora siamo costretti. Dunque sono costretto a stratagemmi e antipatici sotterfugi, tipo il registrare queste note nel computer privato di Libo, dove neppure la mia cara moglie penserebbe mai di cercarle. Soltanto qui ho posto l’informazione, assolutamente vitale, che i maiali da noi studiati sono tutti giovani fuoricasta. E a causa delle leggi in vigore non oso lasciare che essa venga in possesso di altri xenologi framlings. Olha bem, gente, aqui està: A ciência, o bicho que se devora a si mesma! (State attenti, gente, eccola qui: La scienza, la sciocca bestia che si divora da sola!)

João Figueira Alvarez, Note Segrete, pubblicate da Demostene in «Gli xenologi di Lusitania, Tradimento e Integrità» su Reykjavik Historical Perspectives, 4.1.1990

Il suo addome era teso e rigonfio, ma c’era ancora un mese prima che Valentine desse alla luce la bambina, sua figlia. Essere così voluminosa e goffa era una perpetua seccatura. Prima d’allora, ogni volta che si accingeva a portar fuori una classe per il söndring di storia, era stata capace di lavorare al carico del materiale sul vascello. Adesso doveva affidarsi in tutto e per tutto ai marinai di suo marito, e non poteva neppure andare avanti e indietro per controllare una cima o fissare meglio un contenitore. Il comandante aveva le sue idee su come stivare il carico per equilibrare la nave e… be’, doveva ammettere che lo faceva bene. Naturalmente. Non era stato forse il comandante Räv a insegnare a lei, la prima volta che era uscita in mare? Ma a Valentine non piaceva vedersi segregata nel ruolo di spettatrice.

Quello era il suo quinto söndring. Era stato durante il primo dei suoi singolari seminari estivi che aveva avuto l’occasione di conoscere Jakt. In quei giorni non pensava affatto al matrimonio. E Trondheim non era che uno dei tanti pianeti che aveva visitato con il suo peripatetico fratello minore. Voleva insegnare, voleva studiare, con l’idea che da lì a quattro o cinque mesi sarebbe stata in grado di scrivere un buon saggio storico da pubblicare sotto lo pseudonimo di Demostene, dopo di che si sarebbe svagata in qualche altra attività finché Ender non avesse accettato una chiamata da qualche pianeta vicino. Di solito il loro lavoro si integrava perfettamente: lui veniva chiamato a fare l’elegia per qualche defunto importante, la cui vita e la cui storia diventavano il fulcro del saggio storico-sociale di lei. Era anche un gioco quello che essi giocavano, tingendo d’essere professori itineranti mentre in realta ricostruivano e rendevano pubblica l’identità di un mondo. Questo perché i saggi di Demostene erano ritenuti altrettante pietre miliari.

Per un po’ di tempo era stata certa che qualcuno, prima o poi, avrebbe notato come i saggi di Demostene seguivano stranamente i suoi stessi itinerari, e l’avrebbe smascherata. Poi s’era resa conto che, come per gli Araldi seppure in tono minore, anche attorno a Demostene era nata una sorta di mitologia. La gente era convinta che sotto quello pseudonimo si celasse più di un individuo. O, per dirla in altre parole, che ogni saggio di Demostene fosse il lavoro di questo o quel sociologo desideroso di mantenere l’anonimato, e che la rete di computer sottoponesse il lavoro a una non meglio specificata commissione di esperti che decidevano se esso meritava quella firma. Poco importava che nessuno conoscesse uno studioso a cui fosse mai stato sottoposto uno di quei saggi. In realtà centinaia di opere ogni anno venivano fornite ai computer con quello scopo, ma un blocco automatico le rifiutava regolarmente, a meno che non fossero state scritte dal vero Demostene. Inoltre la gente persisteva nella convinzione che Demostene fosse morto da millenni, benché in giro ci fossero migliaia di persone la cui vita, legata ai viaggi a velocità-luce, si prolungava nel tempo secondo i ben noti meccanismi relativistici. Dopottutto Demostene era stato un antico sociologo che scriveva sulla videostampa all’epoca delle Guerre contro gli Scorpioni. Non poteva essere la stessa persona…

E infatti non lo è più, pensava Valentine. Di libro in libro io divento sempre una nuova persona, poiché ogni mondo modifica la mia identità già mentre ne scrivo la storia. E questo mondo, soprattutto, lo ha fatto.

Valentine aveva rifiutato l’invadenza dogmatica del pensiero luterano, in specie quella della fazione calvinista, che sembrava pretendere di avere una risposta perfino alle domande che non erano mai state fatte. Così aveva concepito l’idea di portare un gruppo selezionato di studenti anziani via da Reykjavik, per un seminario sulle Sömmer Islands, una catena di isole equatoriali dove, in primavera, gli skrika salivano a deporre le uova e stormi di halking folleggiavano nel periodo della riproduzione. Il suo proposito era di dare una salutare scossa alla routine scolastica che inevitabilmente irrigidiva ogni università. Gli studenti non avrebbero mangiato nulla che non avessero saputo procurarsi con le loro mani, vuoi gli havegrin che crescevano allo stato selvatico nelle valli riparate, vuoi le prede che avessero avuto il fegato di cacciare e uccidere. Era convinta che, quando il cibo quotidiano fosse dipeso dalla capacità di affrontare l’ambiente, il loro atteggiamento verso ciò che contava e non contava in materia storica si sarebbe affinato.