Presto apparve la radura. Era deserta. Senza esitare, la piccola comitiva si diresse verso la cinta. In breve spazio di tempo, la zona pericolosa fu superata. Non un colpo era stato sparato. Raggiunta la palizzata, il carro si fermò. Nab rimase alla testa degli onagri per trattenerli. L’ingegnere, il giornalista, Harbert e Pencroff avanzarono allora verso la porta, per vedere se era sprangata internamente…
Uno dei battenti era aperto!
«Ma che cosa ci avete detto?» domandò l’ingegnere, rivolgendosi al marinaio e a Gedeon Spilett. Tutt’e due erano stupefatti.
«Per l’anima mia,» disse Pencroff «questa porta poco fa era chiusa!»
Allora i coloni esitarono. I deportati erano, dunque, nel recinto nel momento in cui Pencroff e il giornalista vi si trovavano in ricognizione? La cosa non poteva essere dubbia, poiché la porta, allora chiusa, non aveva potuto essere aperta che da loro! Vi si trovavano ancora, oppure uno di essi ne era appena uscito?
Tutte queste domande s’affacciarono istantaneamente alla mente di ciascuno, ma come rispondere?
In quel mentre, Harbert, che s’era avanzato di alcuni passi nell’interno del recinto, indietreggiò precipitosamente e afferrò la mano di Cyrus Smith.
«Che cosa c’è?» chiese l’ingegnere.
«Una luce!»
«Nella casa?»
«Sì!»
Tutt’e cinque avanzarono verso la porta e, infatti, attraverso i vetri della finestra in faccia a loro, videro tremolare un debole barlume. Cyrus Smith prese rapidamente una decisione.
«È una fortuna veramente unica,» disse ai compagni «trovare i deportati chiusi in questa casa, che di nulla sospettano! Sono in nostro potere! Avanti!»
I coloni penetrarono allora nel recinto con il fucile spianato. Il carro era stato lasciato fuori, sotto la sorveglianza di Jup e di Top, che per prudenza vi erano stati legati.
Cyrus Smith, Pencroff, Gedeon Spilett da una parte, Harbert e Nab dall’altra, rasentando la palizzata, osservarono la parte del recinto che era assolutamente oscura e deserta.
In breve tutti furono presso la casa, davanti alla porta, che era chiusa.
Cyrus Smith fece ai suoi compagni un cenno con la mano, per comandar loro di non muoversi, e s’avvicinò al vetro, debolmente illuminato dalla luce interna.
Il suo sguardo cadde nell’unica stanza che formava il pianterreno della casa.
Sulla tavola brillava una lanterna accesa. Vicino alla tavola era il letto che serviva un tempo ad Ayrton.
Sul letto riposava il corpo di un uomo.
Di colpo Cyrus Smith indietreggiò e con voce soffocata:
«Ayrton!» gridò.
Tosto la porta fu più sfondata che aperta e i coloni si precipitarono nella stanza.
Ayrton pareva dormire. Il suo viso attestava che aveva lungamente e crudelmente sofferto. Ai polsi e alle caviglie gli si vedevano larghe lividure.
Cyrus Smith si chinò su di lui.
«Ayrton!» chiamò l’ingegnere, afferrando le braccia di colui che veniva ritrovato in circostanze tanto inattese.
A quella voce Ayrton aprì gli occhi e guardando in faccia prima Cyrus Smith e poi gli altri:
«Voi!» esclamò «voi!»
«Ayrton! Ayrton!» ripeté Cyrus Smith.
«Dove sono?»
«Nell’abitazione del recinto.»
«Solo?»
«Sì!»
«Ma stanno per venire!» gridò Ayrton. «Difendetevi, difendetevi! E Ayrton ricadde giù estenuato.»
«Spilett,» disse allora l’ingegnere «possiamo essere attaccati da un momento all’altro. Fate entrare il carro nel recinto. Poi, sprangate la porta e ritornate tutti qui.»
Pencroff, Nab e il giornalista s’affrettarono a eseguire gli ordini dell’ingegnere. Non c’era un istante da perdere. Forse il carro era già in mano ai deportati.
In un baleno, il giornalista e i suoi due compagni attraversarono il recinto e raggiunsero la porta della palizzata, dietro la quale si sentiva Top brontolare sordamente.
L’ingegnere, staccandosi per un istante da Ayrton, uscì dalla casa, pronto a far fuoco. Harbert era al suo fianco. Ambedue sorvegliavano la cresta del contrafforte che dominava il recinto. Se i deportati erano nascosti in quel punto, potevano benissimo colpire i coloni uno dopo l’altro.
In quel momento la luna apparve all’est sopra il nero velario della foresta, e una bianca distesa di luce dilagò nell’interno del recinto. Il recinto s’illuminò tutto, con i suoi gruppi d’alberi, il piccolo corso d’acqua che lo irrigava e il suo ampio tappeto d’erba. Dal lato della montagna la casa e una parte della palizzata spiccavano avvolte nel biancore lunare. Dalla parte opposta, verso la porta, il recinto rimaneva nell’oscurità.
In breve, una massa nera si mostrò. Era il carro che entrava nel cerchio di luce, e Cyrus Smith poté udire il rumore della porta che i suoi compagni richiudevano e di cui assicuravano solidamente i battenti all’interno.
Ma in quel momento, Top, rompendo violentemente il guinzaglio, si mise ad abbaiare con furore e si slanciò verso il fondo del recinto.
«Attenzione, amici, e pronti a far fuoco!…» gridò Cyrus Smith.
I coloni avevano spianato i fucili e aspettavano il momento di far fuoco. Top abbaiava sempre e Jup correndo dietro il cane mandò dei sibili acuti.
I coloni lo seguirono e arrivarono sull’orlo del ruscelletto, ombreggiato da grandi alberi.
E là, in piena luce, che cosa videro?
Cinque corpi, stesi sulla proda!
Erano i corpi dei deportati sbarcati quattro mesi prima nell’isola di Lincoln!
CAPITOLO XIII
IL RACCONTO DI AYRTON «I PROGETTI DEI SUOI COMPLICI DVN TEMPO» LORO SISTEMAZIONE AL RECINTO «IL GIUSTIZIERE DELL’ISOLA DI LINCOLN» IL «BONADVENTURE» «RICERCHE INTORNO AL MONTE FRANKLIN» LE VALLI SUPERIORI «ROMBI SOTTERRANEI» UNA RISPOSTA DI PENCROFF «IN FONDO AL CRATERE» RITORNO
CHE COS’ÈRA successo? Chi aveva colpito i deportati? Era stato Ayrton? No, perché un momento prima egli paventava il loro ritorno!
Ayrton era allora in preda a un assopimento profondo, dal quale non fu possibile destarlo. Dopo le poche parole che aveva pronunciate, un pesante torpore s’era impadronito di lui ed era ricaduto immobile sul letto.
I coloni, in preda a mille pensieri confusi, dominati da una violenta sovreccitazione, attesero tutta la notte, senza lasciare la casa di Ayrton, senza ritornare al luogo ove giacevano i corpi dei deportati. A proposito delle circostanze in cui questi avevano trovato la morte, era probabile che lo stesso Ayrton nulla potesse dir loro, poiché egli non sapeva nemmeno di trovarsi nel recinto. Ma sarebbe stato almeno in grado di raccontare i fatti che avevano preceduto quella terribile esecuzione.
L’indomani Ayrton uscì da quel torpore e i suoi compagni poterono testimoniargli cordialmente tutta la gioia che provavano nel rivederlo, pressoché sano e salvo, dopo centoquattro giorni di separazione.
Ayrton raccontò allora, in poche parole, quello che era accaduto, o, per lo meno, quello che egli sapeva.
All’indomani del suo arrivo al recinto, il 10 novembre, al cader della notte, egli fu sorpreso dai deportati, che avevano scalato la cinta. Essi lo legarono e lo imbavagliarono; poi fu condotto in un’oscura caverna, ai piedi del monte Franklin, là dove i deportati si erano rifugiati.
La sua morte era stata decisa e il giorno seguente sarebbe stato ucciso, quando uno dei deportati lo riconobbe e lo chiamò con il nome che portava in Australia. Quei miserabili volevano massacrare Ayrton! Rispettarono invece Ben Joyce!
Ma, da quel momento, Ayrton fu tormentato dalle continue pressioni dei suoi complici d’un tempo. Essi volevano ricondurlo a loro, e contavano su di lui per impadronirsi di GraniteHouse, per penetrare in quell’inaccessibile dimora, e per diventare padroni dell’isola, dopo averne assassinato i coloni!
Ayrton resistette. L’ex deportato, pentito e perdonato, sarebbe morto piuttosto che tradire i suoi compagni.