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Ayrton, legato, imbavagliato, guardato a vista, visse in quella caverna per quattro mesi.

Intanto i deportati, che poco tempo dopo il loro arrivo nell’isola avevano scoperto il recinto, vivevano delle sue riserve, ma tuttavia non l’abitavano. L’11 novembre, due dei banditi, inopinatamente sorpresi dall’arrivo dei coloni, fecero fuoco su Harbert e uno di essi ritornò, vantandosi d’aver ucciso uno degli abitanti dell’isola, ma ritornò solo. Il suo compagno, com’è noto, era caduto sotto il pugnale di Cyrus Smith.

Si può immaginare l’inquietudine e la disperazione di Ayrton, allorché ebbe la notizia della morte di Harbert! Dunque, pensava, i coloni non erano che quattro, ormai, e per così dire, alla mercé dei deportati!

Dopo questo avvenimento e durante tutto il tempo che i coloni passarono al recinto, trattenutivi dalla malattia di Harbert, i pirati non abbandonarono la loro caverna, e nemmeno dopo aver devastato l’altipiano di Bellavista credettero prudente abbandonarla.

Allora i cattivi trattamenti inflitti ad Ayrton raddoppiarono. Le sue mani e i suoi piedi portavano ancora la sanguinante impronta dei lacci, che lo stringevano giorno e notte. A ogni istante si aspettava la morte, cui gli pareva impossibile sfuggire.

Le cose continuarono così fino alla terza settimana di febbraio. I deportati, spiando sempre un’occasione favorevole, lasciarono raramente il loro nascondiglio e non fecero che alcune battute di caccia nell’interno dell’isola o fino alla costa meridionale. Ayrton non aveva più notizie dei suoi amici, che più non sperava di rivedere!

Infine, lo sventurato, indebolito dai maltrattamenti, cadde in una prostrazione profonda, che non gli permise più né di vedere, né di sentire. Cosicché, a datare da quel momento, cioè da due giorni, non sapeva nemmeno dire quello ch’era accaduto.

«Ma, signor Smith,» aggiunse poi «se ero imprigionato in quella caverna, come mai mi ritrovo al recinto?»

«Com’è che i deportati si trovano morti là, in mezzo al recinto?» rispose l’ingegnere.

«Morti?» esclamò Ayrton, che, malgrado la debolezza, si sollevò a metà sul letto.

I compagni lo sostennero. Egli volle alzarsi, il suo desiderio fu assecondato e tutti si diressero verso il ruscelletto.

Era giorno fatto.

Là, sulla riva, nella posizione in cui li aveva colti la morte, che doveva essere stata fulminea, giacevano i cinque cadaveri dei deportati!

Ayrton era annichilito. Cyrus Smith e gli altri lo guardavano senza pronunciare una parola.

A un segno dell’ingegnere, Nab e Pencroff esaminarono quei corpi, già irrigiditi.

Apparentemente non portavano alcuna traccia di ferite.

Dopo averli accuratamente esaminati, Pencroff scoperse sulla fronte dell’uno, sul petto dell’altro, sulla schiena di questo, sulla spalla di quello, soltanto un puntino rosso, simile a una contusione appena visibile e di cui era impossibile stabilire l’origine.

«Lì sono stati colpiti!» disse Cyrus Smith.

«Ma con quale arma?» esclamò il cronista.

«Un’arma fulminante, di cui non abbiamo il segreto!»

«E chi li ha fulminati?…» domandò Pencroff.

«Il giustiziere dell’isola,» rispose Cyrus Smith «quello che vi ha trasportato qui, Ayrton, quello la cui influenza s’è testé ancora manifestata, quello che fa per noi tutto quanto noi non possiamo fare da soli e che, dopo aver agito, si nasconde.»

«Cerchiamolo, dunque!» gridò Pencroff.

«Sì, cerchiamolo,» rispose Cyrus Smith «ma l’essere superiore che compie simili prodigi non lo troveremo che quando gli piacerà di chiamarci finalmente a sé!»

Quella protezione, che annullava completamente la loro azione, irritava e commoveva insieme l’ingegnere. La relativa inferiorità, ch’essa metteva in evidenza, era di quelle da cui può sentirsi ferita un’anima fiera. Una generosità che opera in modo da eludere ogni senso di riconoscenza, denota una specie di disprezzo per i beneficati, e questo, agli occhi di Cyrus Smith, diminuiva in certo modo il valore del beneficio.

«Cerchiamo,» riprese «e Dio voglia che ci sia permesso un giorno di provare a questo altero protettore che non ha a che fare con degli ingrati! Che cosa non darei perché potessimo sdebitarci verso di lui, rendendogli a nostra volta, fosse pure a prezzo della nostra vita, qualche segnalato servigio!»

E da quel giorno, questa ricerca fu l’unica preoccupazione degli abitanti dell’isola di Lincoln. Tutto li incitava a scoprire la chiave di quell’enigma, chiave che non poteva essere che il nome di un uomo dotato d’una potenza veramente inesplicabile e in certo qual modo sovrumana.

Dopo alcuni istanti, i coloni rientrarono nell’abitazione del recinto, ove le loro cure ridonarono rapidamente ad Ayrton l’energia fisica e morale.

Nab e Pencroff trasportarono i cadaveri dei deportati nella foresta, a qualche distanza dal recinto e li sotterrarono profondamente.

Ayrton fu poi messo al corrente dei fatti verificatisi durante il suo sequestro. Seppe allora l’avventura di Harbert e conobbe attraverso quali lunghe prove i coloni erano passati. Essi, poi, non speravano più di rivedere Ayrton e temevano che i deportati l’avessero inesorabilmente massacrato.

«E adesso,» disse Cyrus Smith terminando il suo racconto «ci rimane un dovere da compiere. La metà del nostro compito è adempiuta, ma se i pirati non possono più nuocere, non a noi dobbiamo la riconquista assoluta dell’isola.»

«Ebbene!» esclamò Gedeon Spilett «frughiamo tutto il labirinto dei contrafforti del monte Franklin! Non lasciamo una sola caverna, non un buco inesplorati. Ah, se mai un giornalista si è trovato in presenza di un mistero emozionante, quel giornalista sono proprio io, amici, che vi parlo.»

«E non ritorneremo a GraniteHouse» rispose Harbert «che quando avremo trovato il nostro benefattore.»

«Sì,» disse l’ingegnere «faremo tutto quello che è umanamente possibile… ma, ripeto, non lo troveremo se non quando egli ce lo permetterà!»

«Restiamo al recinto?» chiese Pencroff.

«Restiamoci» rispose Cyrus Smith. «Le provviste sono abbondanti e qui siamo proprio nel centro del nostro campo d’investigazione. Del resto, se sarà necessario, il carro potrà sempre recarsi rapidamente a GraniteHouse.»

«Bene!» rispose il marinaio. «Solamente, una osservazione.»

«Quale?»

«La bella stagione s’avanza e non bisogna dimenticare che abbiamo da fare una traversata.»

«Una traversata?» disse Gedeon Spilett.

«Sì, quella all’isola di Tabor» rispose Pencroff. «È necessario portarvi un messaggio, che indichi la posizione della nostra isola, dove si trova attualmente Ayrton, per il caso in cui lo yacht scozzese venisse a riprenderlo. Chi sa che non sia già troppo tardi?»

«Ma, Pencroff,» chiese Ayrton «come contate di fare questa traversata?»

«Sul Bonadventurel»

«Il Bonadventurel» esclamò Ayrton… «Ma non esiste più!»

«Il mio Bonadventure non esiste più?» urlò Pencroff, sobbalzando.

«No!» rispose Ayrton. «I deportati l’hanno scoperto nel suo piccolo porto appena otto giorni fa, e…»

«E?» fece Pencroff, il cui cuore palpitava.

«E, non avendo più Bob Harvey per manovrare, si sono incagliati sugli scogli e l’imbarcazione è stata completamente sfasciata!»

«Ah, i miserabili! I banditi! Gli infami!» esclamò Pencroff.

«Pencroff,» disse Harbert, prendendo la mano del marinaio «noi costruiremo un altro Bonadventure, e ben più grande! Abbiamo tutte le parti in ferro, tutta l’attrezzatura del brigantino a nostra disposizione!»

«Ma sapete,» rispose Pencroff «che occorrono almeno cinque o sei mesi per costruire un’imbarcazione di trenta o quaranta tonnellate?»

«Impiegheremo il tempo necessario» rispose il giornalista «e rinunceremo per quest’anno a fare la traversata all’isola di Tabor.»