«Che volete, Pencroff? Bisogna rassegnarsi» disse l’ingegnere. «Speriamo che questo ritardo non ci sia dannoso.»
«Ah, il mio Bonadventurel Il mio povero Bonadventurel» esclamò Pencroff, veramente costernato per la perdita della sua imbarcazione, di cui era fiero.
La distruzione del Bonadventure era stata senza dubbio un fatto deplorevole per i coloni e venne quindi stabilito che quella perdita sarebbe stata riparata al più presto. Fissato questo punto, non si occuparono d’altro che di condurre a buon fine l’esplorazione delle più recondite parti dell’isola.
Le prime ricerche iniziarono il giorno stesso, 19 febbraio, e durarono una intera settimana. La base della montagna, tra i suoi contrafforti e le loro numerose ramificazioni, formava un labirinto di vallate e di controvallate, disposto molto capricciosamente. Evidentemente, là, in fondo a quelle strette gole, fors’anche nell’interno del monte Franklin, conveniva proseguire le ricerche. Nessun’altra parte dell’isola sarebbe stata più adatta a celare un rifugio, il cui ospite volesse rimanere incognito. Ma i contrafforti erano talmente intricati, che Cyrus Smith dovette procedere alla loro esplorazione metodicamente.
I coloni visitarono dapprima tutta la vallata, che si apriva a sud del vulcano e che raccoglieva le prime acque del fiume della Cascata. Là Ayrton mostrò loro la caverna ove s’erano rifugiati i deportati e nella quale egli era stato sequestrato fino al momento del suo trasporto al recinto. Quella caverna era nell’identico stato in cui Ayrton l’aveva lasciata. Vi si trovava ancora una certa quantità di munizioni e di viveri, che i deportati avevano sottratto dalle provviste del recinto, con l’intenzione di crearsi una riserva.
Tutta la vallata che terminava con la grotta, vallata ombreggiata da grandi alberi, fra cui dominavano le conifere, fu esplorata con estrema cura e avendo girato la punta del contrafforte di sudovest, i coloni si cacciarono in una gola più stretta che s’apriva in quell’ammasso tanto pittoresco dei basalti del lido.
Qui gli alberi erano più rari. La pietra sostituiva l’erba. Le capre selvatiche e i mufloni saltavano sulle rocce. Là cominciava la parte arida dell’isola. Si poteva già constatare che, delle numerose vallate che si ramificavano alla base del monte Franklin, tre soltanto erano boscose e ricche di pascoli come quella del recinto, confinante a ovest con la vallata del fiume della Cascata e a est con quella del Creek Rosso. Questi due ruscelli, che più in basso diventavano fiumi per la confluenza di alcuni torrenti, raccoglievano tutte le acque della montagna e determinavano così la fertilità della parte meridionale dell’isola. Quanto al Mercy, era alimentato più direttamente da abbondanti sorgenti perdute sotto l’ombrosa volta della foresta dello Jacamar, e altre sorgenti della stessa natura, espandendosi in mille canaletti, bagnavano il suolo della penisola Serpentine.
Ora, l’una o l’altra di queste tre vallate, ove l’acqua non mancava, avrebbe potuto benissimo ospitare qualche solitario, che vi avrebbe trovato tutto il necessario alla vita. Ma i coloni le avevano già esplorate e in nessuna parte avevano potuto constatare la presenza dell’uomo.
Era dunque in fondo a quelle aride gole, in mezzo agli scoscendimenti delle rocce, nelle aspre forre del nord, tra le colate di lava, che si sarebbe forse trovato il segreto rifugio e il suo ospite?
La parte nord del monte Franklin, alla sua base, si componeva unicamente di due vallate larghe, poco profonde, senza traccia di verde, sparse di blocchi erratici, striate da lunghe morene, lastricate di lave, rese disuguali da grossi tumori minerali, cosparse di ossidiane e labradoriti. Quella parte richiese lunghe e difficili esplorazioni. Ivi si trovavano mille cavità, poco comode senza dubbio, ma assolutamente dissimulate all’occhio e di difficile accesso. I coloni visitarono anche degli oscuri cunicoli, che risalivano all’epoca plutonica, ancora anneriti dal passaggio dei fuochi d’un tempo e che s’addentravano nell’immensa massa granitica del monte. Gli esploratori percorsero quelle buie gallerie, e con dei rami resinosi accesi frugarono le minime cavità, le minime profondità. Ma dappertutto era silenzio e oscurità. Sembrava che mai essere umano avesse calpestato il suolo di quegli antichi cunicoli, che mai il suo braccio avesse rimosso uno solo di quei blocchi. Essi erano ancora tali e quali il vulcano li aveva lanciati al disopra delle acque, all’epoca in cui l’isola era emersa.
Ciò nonostante, se quelle sovrastrutture sembravano assolutamente deserte, se l’oscurità vi era completa, Cyrus Smith fu costretto a riconoscere che non vi regnava però un assoluto silenzio.
Arrivando in fondo a una di quelle tenebrose caverne, che si prolungavano per una lunghezza di parecchie centinaia di piedi nell’interno della montagna, egli fu sorpreso di udire sordi boati, che la sonorità delle rocce accresceva d’intensità.
Anche Gedeon Spilett, che l’accompagnava, udì quei lontani brontolii, che indicavano il rianimarsi del fuoco sotterraneo. A varie riprese, entrambi ascoltarono e furono d’accordo nel ritenere che qualche reazione chimica si stava sviluppando nelle viscere del suolo.
«Il vulcano non è, dunque, totalmente spento?» disse il giornalista.
«Può essere che dall’epoca della nostra esplorazione del cratere a oggi,» rispose Cyrus Smith «qualche lavorio si sia verificato negli strati inferiori. Ogni vulcano, benché lo si consideri spento, può, evidentemente, rimettersi in attività.»
«Ma se si stesse preparando un’eruzione dal monte Franklin,» chiese Gedeon Spilett «ci sarebbe pericolo per l’isola di Lincoln?»
«Non credo» rispose l’ingegnere. «Il cratere, cioè la valvola di sicurezza, esiste, e l’eccesso dei vapori e delle lave si sfogherà, come per il passato, per la sua via consueta.»
«A meno che le lave non s’aprano un nuovo passaggio verso le parti fertili dell’isola!»
«Perché, caro Spilett,» rispose Cyrus Smith «perché non dovrebbero seguire la strada che è già stata naturalmente tracciata?»
«Eh, i vulcani sono capricciosi!» rispose il giornalista.
«Osservate:» riprese l’ingegnere «l’inclinazione di tutto il monte Franklin favorisce l’effusione delle materie verso le vallate che stiamo ora esplorando. Bisognerebbe che un terremoto cambiasse il centro di gravità della montagna, perché la linea dell’effusione si modificasse.»
«Ma un terremoto è sempre probabile nelle condizioni attuali» fece rilevare Gedeon Spilett.
«Sempre,» rispose l’ingegnere «soprattutto quando le forze sotterranee cominciano a risvegliarsi e le viscere del globo, dopo un lungo riposo, rischiano d’essere ostruite. E così caro Spilett, un’eruzione sarebbe per noi un fatto grave. Molto meglio se questo vulcano non avesse la velleità di ridestarsi! Ma, a ogni modo, noi non ci possiamo far nulla, vi pare? In ogni caso, checché accada, non credo che il nostro dominio di GraniteHouse possa essere seriamente minacciato. Tra esso e la montagna il suolo è notevolmente depresso, e se per caso le lave prendessero la direzione del lago, sarebbero rigettate sulle dune e sulle zone vicine al golfo del Pescecane.»
«Del resto, non abbiamo ancora veduto sul vertice del monte il fumo che indica una prossima eruzione» disse Gedeon Spilett.
«No,» rispose Cyrus Smith «nessun gas esce dal cratere, di cui proprio ieri ho osservato la sommità. Ma può essere che nella parte inferiore dell’apertura il tempo abbia accumulato macigni, ceneri, lave indurite, e che la valvola di cui parlavo sia al momento troppo sotto pressione. Ma, al primo sforzo serio, ogni ostacolo scomparirà e potete essere sicuro, caro Spilett, che né l’isola, che è la caldaia, né il vulcano, che è il fumaiolo, scoppieranno sotto la pressione dei gas. Nondimeno, ripeto, sarebbe meglio che non vi fosse eruzione.»
«Eppure, non c’inganniamo,» riprese il giornalista «si sentono proprio dei sordi boati nelle viscere stesse del vulcano!»