«Mi sembra,» disse Ayrton, ch’era disteso a terra in modo da posare l’orecchio sul suolo «mi sembra di udire sordi rumori, come farebbe un carro carico di sbarre di ferro.»
I coloni ascoltarono con estrema attenzione e poterono constatare che Ayrton non s’ingannava. Ai rumori cui aveva accennato si mescolavano talvolta dei sordi muggiti sotterranei, che formavano una sorta di «crescendo» e poi si spegnevano a poco a poco, come fosse passato del vento nelle profondità del globo. Ma non si udiva ancora nessuna vera e propria detonazione. Da tutto questo si poteva dunque dedurre che i vapori e il fumo trovavano libero passaggio attraverso il camino centrale e che, essendo la valvola abbastanza larga, nessuno spostamento si sarebbe prodotto, nessuna esplosione sarebbe stata da temere.
«Ah! diamine,» disse allora Pencroff «non ritorniamo al lavoro? Che il monte Franklin fumi, sbraiti, gema, vomiti pure fuoco e fiamme finché gli piacerà; non è questa una ragione per star senza far niente! Andiamo, Ayrton, Nab, Harbert, signor Cyrus, signor Spilett; bisogna che oggi tutti diano mano all’opera. È il momento di sistemare le cinte e una dozzina di braccia non saranno di troppo. Fra meno di due mesi voglio che il nostro nuovo Bonadventure — perché gli conserveremo questo nome, non è vero? — galleggi sulle acque di Porto Pallone! Dunque, non c’è un’ora da perdere!»
Tutti i coloni, di cui Pencroff aveva chiesto l’aiuto, discesero al cantiere e lavorarono alla posa delle cinte, le costole dello scheletro che formano la cintura di un bastimento e uniscono solidamente fra loro spessi corsi di fasciame. Era un’operazione difficile e faticosa, alla quale tutti dovettero partecipare.
I coloni lavorarono, dunque, assiduamente per tutta quella giornata, 3 gennaio, senza preoccuparsi del vulcano, che, d’altra parte, dalla spiaggia davanti a GraniteHouse non era visibile. Ma una volta o due delle grandi ombre, velando il sole, che descriveva il suo arco diurno in un cielo estremamente puro, indicarono che una densa nube di fumo passava fra il suo disco e l’isola. Il vento, soffiando dal largo, portava tutti quei vapori verso l’ovest. Cyrus Smith e Gedeon Spilett notarono benissimo quegli oscuramenti passeggeri e ragionarono più volte dei progressi che evidentemente faceva il fenomeno vulcanico, ma il lavoro non fu interrotto. Era, d’altronde, del più alto interesse, sotto tutti i punti di vista, che il bastimento fosse ultimato nel minor tempo possibile. In presenza delle eventualità, che potevano verificarsi, la sicurezza dei coloni sarebbe stata, a nave terminata, molto meglio garantita. Chi poteva sapere se quella nave non avrebbe rappresentato un giorno il loro unico asilo?
La sera, dopo cena, Cyrus Smith, Gedeon Spilett e Harbert salirono sull’altipiano di Bellavista. Era già notte fatta e l’oscurità doveva permettere di constatare se ai vapori e al fumo accumulati alla bocca del cratere si mescolavano fiamme o materie incandescenti, proiettate dal vulcano.
«Il cratere è in fiamme!» gridò Harbert, che, più svelto dei suoi compagni, era arrivato per primo sull’altipiano.
Il monte Franklin, distante circa sei miglia, appariva allora come una gigantesca torcia, in cima alla quale si contorcevano delle fiamme fuligginose. Fumo, scorie e ceneri erano forse commiste a quelle fiamme, cosicché il loro splendore, molto attenuato, non spiccava vivo nelle tenebre della notte. Ma una specie di chiarore fulvo si diffondeva sull’isola e mostrava confusamente la massa boscosa dei primi piani. Immensi vortici offuscavano gli strati superiori dell’atmosfera, attraverso i quali scintillavano alcune stelle. «I progressi sono rapidi!» disse l’ingegnere.
«Non c’è da meravigliarsi» rispose il giornalista. «Il risveglio del vulcano data già da un certo tempo. Vi ricordate, Cyrus, che i primi vapori sono apparsi quando abbiamo esplorato i contrafforti della montagna, per scoprire il nascondiglio del capitano Nemo? Era, se non m’inganno, verso il 15 ottobre.»
«Sì,» rispose Harbert «e sono già passati due mesi e mezzo da allora!»
«Il fuoco sotterraneo ha dunque covato per dieci settimane,» riprese Gedeon Spilett «e non c’è proprio da stupirsi che si sviluppi adesso con tanta violenza!»
«Non sentite delle vibrazioni del suolo?» domandò Cyrus Smith.
«Infatti,» rispose Gedeon Spilett «ma da questo a un terremoto…»
«Non dico che siamo minacciati da un terremoto,» rispose Cyrus Smith «che Dio ce ne preservi. No. Queste vibrazioni sono dovute all’effervescenza del fuoco centrale. La crosta terrestre non è altro che la parete d’una caldaia, e come sapete la parete d’una caldaia, sotto la pressione dei gas, vibra come una piastra sonora. Questo è appunto l’effetto che ora si produce.»
«Che magnifici fasci di fuoco!» esclamò Harbert.
In quel momento scaturiva dal cratere una specie di fuoco d’artificio, di cui i vapori non avevano potuto attenuare lo splendore. Migliaia di frammenti luminosi e di punti infocati si proiettavano in opposte direzioni. Taluni, sfondando la cupola di fumo, la squarciavano con rapidissimo getto e si lasciavano dietro una vera polvere incandescente. Quel fulgore di luci fu accompagnato da detonazioni successive, che producevano lo stesso fragore lacerante di una batteria di mitraglie.
Cyrus Smith, il giornalista e il giovanetto, dopo aver passato un’ora sull’altipiano di Bellavista, ridiscesero sulla spiaggia e ritornarono a GraniteHouse. L’ingegnere era pensieroso, preoccupato anzi, tanto che Gedeon Spilett credette di dovergli domandare se presentiva qualche pericolo prossimo, di cui l’eruzione potesse essere la causa diretta o indiretta.
«Si e no» rispose Cyrus Smith.
«Tuttavia,» riprese il giornalista «la più grande disgrazia che potrebbe capitarci sarebbe un terremoto, che sconvolgerebbe l’isola, vero? Ora, non credo che questo sia da temersi, perché i vapori e le lave hanno trovato un passaggio libero per riversarsi all’esterno.»
«Perciò,» rispose Cyrus Smith «non temo tanto un terremoto, nel senso che ordinariamente si dà alle convulsioni del suolo, provocate dall’espansione di vapori sotterranei; ma penso che altre cause possano produrre grandi disastri.»
«Quali, caro Cyrus?»
«Non so bene… bisogna che veda… che visiti la montagna… Fra pochi»
giorni saprò qualche cosa di preciso.
Gedeon Spilett non insistette e poco dopo, malgrado le detonazioni del vulcano che aumentavano d’intensità e che gli echi dell’isola ripetevano, gli abitanti di GraniteHouse dormivano d’un sonno profondo.
Tre giorni passarono, il 4, il 5 e il 6 gennaio. Il lavoro ferveva sempre attorno al bastimento e, senza spiegarsi altrimenti, l’ingegnere intensificava l’opera stessa quanto più gli era possibile. Il monte Franklin era allora incappucciato da un’oscura nube di sinistro aspetto e con le fiamme eruttava anche pietre incandescenti, alcune delle quali ricadevano nel cratere stesso, la qual cosa faceva dire a Pencroff, che non voleva considerare il fenomeno se non dal lato divertente:
«To’! Il gigante gioca a bilboquet! Il gigante fa giochi di prestigio! E, infatti, le materie vomitate ricadevano nel baratro e le lave, spinte verso»
l’alto dalla pressione interna, sembrava che non fossero ancora salite fino all’apertura del cratere. Almeno, lo sbocco nordest, ch’era visibile in parte, non versava alcun torrente sul pendio settentrionale del monte.
Però, per quanto urgenti fossero i lavori di costruzione, anche altre faccende esigevano la presenza dei coloni in diversi punti dell’isola. Prima di tutto, bisognava andare al recinto, dove era rinchiuso il gregge di mufloni e di capre, e rinnovare la provvista di foraggio di quegli animali. Fu stabilito allora che Ayrton vi si sarebbe recato il giorno seguente, 7 gennaio, e siccome egli poteva bastare da solo a quell’operazione, cui era abituato, Pencroff e gli altri manifestarono una certa sorpresa quando udirono l’ingegnere dire ad Ayrton: