Nelle settimane che seguirono, ci fu una stretta di freni per quanto riguardava la sicurezza. In effetti, Vornan-19 divenne il prigioniero, e non semplicemente l’ospite del governo degli Stati Uniti. Era sempre stato, più o meno, un prigioniero onorato, perché Kralick aveva ritenuto poco saggio lasciare che si muovesse liberamente: ma a parte i sigilli e le guardie piazzati alla sua porta di notte, non si era cercato d’imporgli restrizioni fisiche. Lui era riuscito a sbarazzarsi chissà come del sigillo e aveva drogato le guardie, ma Kralick impedì che la cosa si ripetesse usando sigilli migliori, allarmi automatici, ed un numero maggiore di guardie.
Il sistema funzionò, nel senso che Vornan non compì altre spedizioni non autorizzate. Ma credo fosse più una scelta di Vornan che le conseguenze delle precauzioni aggiuntive di Kralick. Dopo la sua esperienza con gli Apocalittici, Vornan parve calmarsi considerevolmente: diventò un turista più ortodosso, che guardava questo e quello, ma si asteneva dal fare i suoi commenti più diabolici. Avevo paura di quella versione addolcita del nostro ospite, come ne avrei avuta di un vulcano addormentato. Ma per la verità non commise altre scandalose trasgressioni della decenza, non pestò i piedi a nessuno, e sotto molti punti di vista fu un modello di tatto e di delicatezza. Io mi chiedevo che cosa ci stava preparando.
Le settimane della visita si trascinavano. Ci recammo a Disneyland insieme a Vornan, e sebbene il parco fosse stato visibilmente risistemato, lo annoiò. Non gli interessava neppure vedere le ricostruzioni artificiali di altri tempi e di altri luoghi: voleva un’esperienza diretta degli Stati Uniti del 1999. A Disneyland, badava più agli altri frequentatori che ai divertimenti in se stessi. Gli facemmo visitare il parco senza preannunci di sorta, muovendoci in un piccolo gruppo compatto, ed una volta tanto lui attirò pochissima attenzione. Si sarebbe detto che chi vedeva Vornan a Disneyland lo ritenesse parte di esso, un’ingegnosa imitazione dell’uomo venuto dal futuro, e passare oltre senz’altra manifestazione che un cenno del capo ed un sorriso.
Lo portammo a Irvine e gli mostrammo l’accelleratore da un trilione di volt. Era stata un’idea mia: volevo un’occasione per tornare all’università per qualche giorno, visitare il mio ufficio e la mia casa, ed essere sicuro che tutto andava bene. Lasciare avvicinare Vornan all’acceleratore era un po’ un rischio calcolato, pensavo, tenendo conto dal caos che aveva prodotto nella villa di Wesley Bruton; ma facemmo in modo che Vornan non arrivasse mai a portata di mano degli apparecchi dei comandi. Lui mi stava accanto, osservava con aria grave gli schermi, mentre io disintegravo gli atomi per lui. Sembrava interessato: ma era l’interesse superficiale che avrebbe potuto dimostrare un bambino. Gli piacevano quei bei motivi luminosi.
Per un momento, dimenticai tutto, nella gioia di manovrare l’enorme macchina. Stavo al quadro dei comandi, tra apparecchiature per miliardi di dollari che si stendevano sopra di me e davanti a me, premendo interruttori e tirando leve con la stessa gaiezza che Wesley Bruton aveva mostrato quando aveva fatto compiere prodigi alla sua casa. Polverizzai atomi di ferro lanciando folli spruzzi di neutroni. Inviai un getto di protoni ed innestai l’iniettore di neutroni, in modo che lo schermo si chiazzò delle fulgide esplosioni delle linee di frattura. Evocai quark ed antiquark. Eseguii tutto il mio repertorio; e Vornan annuiva innocentemente, sorridendo e additando. Avrebbe potuto sgonfiarmi come aveva fatto con il presidente della Borsa di New York, chiedendomi semplicemente che senso avevano quegli ingombranti apparecchi, ma non lo fece. Non sono certo se il suo autocontrollo fosse un atto di cortesia nei miei confronti (perché mi lusingavo che Vornan fosse più vicino a me che a tutti gli altri suoi accompagnatori) o se, cosa più semplice, in quel momento la sua vena maliziosa si fosse esaurita, e lui si accontentasse di stare rispettosamente a guardare.
Poi lo portammo alla centrale a fusione sulla Costa. Pure quella fu opera mia, anche se Kralick ammise che avrebbe potuto essere utile. Nutrivo ancora una speranza, sia pure fioca, di estorcere a Vornan qualche dato sulle fonti energetiche della sua epoca. Mi spronava la coscienza troppo sensibile di Jack Bryant. Ma il tentativo fu un insuccesso. Il direttore della centrale spiegò a Vornan che avevamo catturato la furia dello stesso Sole, avviando una reazione protone-neutrone entro una morsa magnetica, e attingendo energia dalla trasformazione dell’idrogeno in elio. Vornan fu autorizzato a entrare nella sala in cui il plasma veniva regolato per mezzo di sensori che operavano al di sopra dello spettro visibile. Ciò che vedevamo non era il vero plasma puro (era impossibile vederlo direttamente) bensì una simulazione, una ricostruzione, una curva che seguiva, culmine per culmine, ogni fluttuazione del mare di nuclei denudati entro la vasca. Erano passati anni da quando avevo visitato la centrale per l’ultima volta, ed ero affascinato e pieno di soggezione. Vornan stette zitto. Ci aspettavamo commenti sprezzanti; non ne fece. Non si prese il disturbo di paragonare i nostri risultati scientifici medievali con la tecnologia della sua era. Quel nuovo Vornan era privo di mordente.
Poi tornammo indietro attraverso il Nuovo Messico, dove gli indiani Pueblo abitavano in un museo antropologico vivente. Fu il grande momento di Helen McIlwain. Ci guidò per il polveroso villaggio di fango, irradiando dati antropologici. All’inizio della primavera non era ancora incominciata la stagione turistica regolare, e perciò avevamo il pueblo tutto per noi. Kralick si era accordato con le autorità locali per chiudere la riserva agli estranei, per quel giorno, in modo che nessun maniaco di Vornan potesse arrivare da Albuquerque o da Santa Fe a combinare guai. Gli indiani uscirono dalle case dai tetti piatti per curiosare, ma penso che molti di loro non sapessero chi era Vornan, e che la cosa non importasse a nessuno. Erano individui grassocci, con le facce tonde e i nasi piatti, ben diversi dagli indiani aquilini delle leggende. Mi facevano pena. In un certo senso, erano dipendenti federali, pagati per stare lì e vivere nello squallore. Sebbene siano autorizzati ad avere televisori, automobili ed elettricità, non possono costruire case di stile moderno, e debbono continuare a macinare il granturco, ad eseguire le danze cerimoniali, e a produrre vasellame da vendere ai visitatori. È così che noi proteggiamo il nostro passato.
Helen ci presentò ai maggiorenti del villaggio; il governatore, il capo, ed i capi di due delle cosiddette società segrete. Sembravano uomini svegli e sofisticati, che avrebbero potuto benissimo dirigere concessionarie automobilistiche ad Albuquerque. Ci fecero visitare alcune case, ci portarono nel kiva, il centro religioso del villaggio, un tempo sacrosanto. Alcuni bambini eseguirono per noi una specie di danza. In un negozio sulla piazza ci mostrarono il vasellame ed i gioielli d’argento e di turchese prodotti dalle donne del villaggio. Una vetrina conteneva vasi più vecchi, fatti all’inizio del ventesimo secolo, bellissimi, ben rifiniti e con motivi semiastratti di uccelli e di cervi; ma quei pezzi costavano centinaia di dollari l’uno, e mi bastò un’occhiata alla faccia della commessa per capire che in realtà non erano neppure in vendita; erano tesori tribali, ricordi di tempi migliori. La merce vera e propria era costituita da piccole fiasche fragili e mediocri. Helen disse, sprezzante: «Vedete che danno la vernice dopo che il pezzo è stato cotto, adesso? È deplorevole. Questo può farlo anche un bambino. L’Università del Nuovo Messico sta cercando di riesumare i vecchi sistemi, ma la gente, qui, sostiene che i turisti preferiscono la roba fasulla. È più colorata, più vistosa… e costa meno.» Vornan si attirò un’occhiata acida da parte di Helen quando espresse l’opinione che la merce prodotta per i turisti fosse più attraente del vasellame più antico. Penso che lo dicesse solo per punzecchiarla, ma non ne sono sicuro; i criteri estetici di Vornan erano sempre insondabili, e probabilmente la scadente merce attuale gli sembrava un prodotto autentico del remoto passato quanto il vasellame veramente bello della vetrina.