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Stavano arrivando altre squadre. Non c’era bisogno di loro, ma non me ne lamentavo di certo: che sarebbe successo se i precedenti proprietari, contro ogni logica, avessero deciso di battersi? Un impianto d’illuminazione a batterie mostrava la colonna degli uomini che emergevano dal nulla in mezzo al locale. Venivano messi in fila oltre la porta, fatti marciare in apparenza verso una parete, uscivano sul nostro lato per essere di nuovo raggruppati dagli ufficiali e dai graduati, e quindi andavano a rinforzare le truppe già sul posto.

Era uno strano spettacolo. Se vi mettevate di lato rispetto alla porta, sullo stesso piano, e ne guardavate il sottilissimo profilo, l’effetto era ancora più sconcertante. Scarponi, ginocchia, cosce, mani e teste sbucavano dal piano verticale in quest’ordine. Se foste andati dietro il portale avreste potuto vedere… voi cosa supponete? Sezioni anatomiche di viscere e interiora? L’interno dei corpi umani che compivano il passaggio? Niente di tutto ciò. Non avreste visto proprio niente perché, da dietro, il rettangolo della porta appariva di un nero ultraterreno, del tutto senza luce. Osservato dalla parte anteriore il rettangolo era invece trasparente, come inesistente sullo sfondo del muro un po’ scrostato, e l’unico segno della sua esistenza era dato dai soldati che ne emergevano.

— Maggiore? — Era di nuovo la sergente Sambok. Si guardò attorno e abbassò la voce. — Credo di sapere dove sia Dormeyer.

— Ottimo lavoro, sergente — dissi.

Lei scosse il capo. — È uscito dalla Base, sgusciando fuori dal perimetro in qualche modo. Poi si è diretto ad Albuquerque. Il fatto è che abita… abitava qui. Ad Albuquerque, voglio dire.

Questa non ci voleva. Ma non ne aveva colpa lei. — Ha fatto il suo dovere — la rassicurai. Ed era la verità. Per far parte della riserva, Nyla Sambok era un soldato di prim’ordine. La cosa buffa era che nella vita civile faceva l’insegnante di musica, ed era sposata a un suonatore di clavicembalo. Facendo parte della Riserva avevano entrambi ottenuto delle borse di studio; poi erano stati richiamati. La maggior parte dei riservisti erano poco entusiasti, ma la Sambok era decisa e sveglia, e questo m’aveva convinto a includerla nel distaccamento che avevo portato con me da Chicago. Il fatto che fosse anche una gran bella femmina non disturbava nessuno. Ma io non frequentavo mai il personale femminile. Tutt’al più un pensiero, di tanto in tanto.

— Tac-Cinque sarà in linea per lei fra un paio di minuti — continuò Nyla. — Ho raccolto la voce mentre entravo.

— Bene — dissi. — Intanto ho avuto un’idea. Vada al recinto dei prigionieri, e mi riporti gli abiti del senatore DeSota.

Perfino la sergente Sambok poteva esprimere sbalordimento. — I suoi abiti?

— È quel che ho detto, sergente. Può lasciargli la biancheria, ma voglio tutto il resto. Anche i calzini.

Negli occhi le tornò una luce di comprensione. — Giusto, maggiore — sogghignò, e si allontanò in fretta. Io restai lì ad aspettare la chiamata di Tac-Cinque.

Comunicare nei due sensi attraverso la sottile pellicola che separava gli universi paralleli era più arduo che in un senso soltanto. Per ottenere energia dovevano invertire il portale e collassare il campo. Quando l’ufficiale addetto alla porta mi fece un cenno col capo sollevai il radiotelefono, e la voce del Generale Magruder non mi diede il tempo d’aprir bocca. — Ben fatto, maggiore! — abbaiò. — È il Presidente che glielo manda a dire. Ha seguito l’operazione da vicino, naturalmente.

— Grazie, signore.

— Ora passiamo alla Fase Due. È pronto per la trasmissione TV?

— Sissignore. — Non lo ero ancora, ma lo sarei stato appena Nyla Sambok fosse tornata coi vestiti.

— La stazione TV e i ripetitori sono in mano nostra. Potranno trasmettere fra circa mezz’ora. I tecnici hanno già il nastro del Presidente e lo manderanno in onda dopo la sua introduzione.

— Sissignore.

— Bene. — Poi cambiò tono. — Un’altra cosa, maggiore. Ha notato segni di reazione?

— Niente di nuovo, signore. Ma non abbiamo ancora interrogato i prigionieri.

— Uhm! Qualcun altro visitatore poco gradito?

— Per ora nessuna traccia, signore.

— Tenete gli occhi aperti — borbottò, e riappese. Avevo identificato bene il tono. Era quello di chi ha paura.

Mezz’ora dopo, camminando sul terreno deserto della Base verso la stazione TV, sotto le stesse stelle che illuminavano anche la mia America, m’accorsi di provare gli identici oscuri timori. Una jeep degli MP m’incrociò a poca distanza, scandagliando il buio col suo faretto. Rallentarono appena il tempo di prender visione della mia tuta da combattimento, poi proseguirono. Non mi dissero parola. E non mi chiesero i documenti.

Avrei potuto benissimo essere uno di quei «visitatori poco graditi». Avrei potuto essere quell’altro me stesso che sembrava esser stato dappertutto. E se lo fossi stato, non avrei dovuto far altro che mettermi una fascia verde intorno a una manica per ingannarli. E in tal caso…

E in tal caso cos’avrebbe fatto quell’altro me? Ecco una domanda preoccupante. Quella gente aveva molto indagato e molto curiosato. Ma non aveva fatto assolutamente nulla.

Non potevo realmente biasimare gli MP per la loro trascuratezza, poiché dal loro punto di vista non c’era motivo di sospettarmi. Avevamo preso quella Base senza colpo ferire, spazzando via ostacoli costituiti soltanto da sentinelle mezzo addormentate che davanti alle nostre truppe avevano sbarrato gli occhi per lo stupore. Che razza di modo per impadronirsi dell’America! Mi chiedevo come potesse essere la vita in una nazione dove le Basi di quell’importanza venivano sorvegliate da appena un manipolo di uomini dell’esercito regolare, dove non c’era la coscrizione obbligatoria, né il richiamo in servizio dei riservisti. Se io stesso avessi terminato i miei studi postmilitari invece di esser riattivato nella Riserva, cos’avrei finito per diventare?

Un senatore, forse?

Ma non era il genere di speculazioni in cui potevo perdermi, quando mi attendeva la parte più delicata del lavoro per cui ero lì.

La sergente Sambok era già alla stazione TV con gli abiti del senatore DeSota, puntuale ed efficiente. Cercai uno spogliatoio e appesi a una gruccia la mia uniforme. Gli piaceva vestir bene, a quest’altro Dom DeSota: camicia, cravatta, scarpe, pantaloni, giacca sportiva, tutto molto fine e di lusso. Il taglio degli abiti era singolare (qui la moda sembrava assai diversa dalla nostra) ma apprezzai il contatto sulla pelle della camicia di seta, e l’elegante piega dei pantaloni. Mi stavano un filo troppo larghi. Il mio alter ego aveva messo su qualche chilo di troppo, e questo mi fece sogghignare mentre stringevo di un buco in più la sua bella cintura.

Quando uscii dallo spogliatoio la sergente mi osservò con aria d’approvazione. — Molto elegante, maggiore — si complimentò.

— Cosa gli ha lasciato addosso? — chiesi, esaminandomi in uno specchio. E quando la vidi sogghignare seppi la risposta. In Agosto non si soffriva il freddo neppure in mutande, tuttavia… — Gli faccia avere una mia tuta da fatica. La troverà nella mia borsa B-4 — ordinai. Per sua fortuna quelle tute sono sempre un po’ larghe, così non dubitavo che gli sarebbe andata bene.

— Sissignore — annui la sergente Sambok. — Signore?

— Che c’è?

— Be’… se lei indossa i suoi vestiti e lui si metterà i suoi, non ci sarà un po’ di confusione? Voglio dire, supponiamo che lui riesca a metterla fuori combattimento e scambi di nuovo gli abiti. Come farò a capire chi è l’uno e chi l’altro?