Stavolta non ebbe esitazioni: — No.
— Neppure per salvare, forse, moltissime vite umane?
— No, neppure per questo. La resa è da escludersi, Dom… e non sono sicuro che pur di salvare la vita a pochi americani accetterei di veder uccidere qualche milione di russi.
Lo fissai stupefatto. Era mai possibile che io — in ogni incarnazione — fossi un tale sciocco smidollato? Ma lui non aveva l’aria di uno smidollato. Si appoggiò allo schienale della seggiola, scrutandomi, e d’un tratto parve più alto e più sicuro di sé. — Avanti, qual è la cosa che ti preoccupa, Dominic? — chiese.
— Che vuoi dire? — sbottai.
Lui enumerò i pensieri mentre gli venivano alla mente: — Mi sembra che ci sia qualcosa di cui non mi hai parlato, e che ti preoccupa. Forse posso indovinare cosa. O forse ne sono lontanissimo. Il motivo per cui sono stato chiamato qui è che c’era qualcun altro che annusava attorno. E apparentemente era a conoscenza di ciò che voi sareste venuti a fare. Se fossi al tuo posto credo che mi preoccuperei molto di lui. Chi è? Da dove viene? A cosa mira?
Avrei dovuto saperlo che era difficile tener segreto qualcosa a me stesso. Non ero mai stato un ingenuo, tantomeno nelle vesti di quel senatore. Aveva messo il dito proprio sulla piaga… o su una delle piaghe.
Dissi, sottovoce: — Viene da un tempo parallelo, Dom.
— Questo l’avevo capito anch’io — borbottò, impaziente. — Vi ha già fatto altre visite?
— No. Non esattamente. Non lui. — Ma non volevo parlargli dell’altro visitatore, quello che avevamo catturato e che ora sedeva in una tenda dall’altra parte del portale, sotto sorveglianza, arrovellato dal timore che i suoi potessero rintracciarlo e fargli pagare l’aiuto che ci aveva dato nella realizzazione del portale. — Comunque abbiamo avuto un visitatore. Forse più d’uno.
— Continua.
Dissi: — Hai mai sentito parlare del «rimbalzo»?
— Rimbalzo in che senso?
— Nel senso di «azione e reazione». Quando tu oltrepassi la pellicola, o qualsiasi altra cosa sia, che separa un universo dall’altro c’è una specie di effetto di conservazione della massa. Qualcosa se ne va, qualcosa deve prenderne il posto.
Si accigliò. — Vuoi dire che altre persone vengono spostate avanti e indietro?
— Non proprio persone. È complicato. Dipende dal tipo d’urto che questa pellicola subisce. Qualche volta è solo energia: luce, oppure onde sonore. Qualche volta masse d’aria trasportate avanti e indietro. O anche piccole cose… uccelli in volo, magari. E qualche volta è molto di più.
— E questo sta accadendo qui?
Di malavoglia ammisi: — Sembra di sì, Dom. E non solo qui.
Si alzò e andò a guardar fuori dalla finestra. Lo lasciai riflettere. Da sopra una spalla disse: — Ho l’impressione che voialtri abbiate trovato il modo di scoperchiare il vaso di Pandora, Dom. — Io non feci commenti. Si girò a guardarmi. — Vuoi procurarmi delle sigarette, per favore? — disse stizzosamente. — Questa faccenda è dura da prendersi con calma.
Per un momento mi chiesi se seguire la linea dura con lui o meno. Decisi di no. — Figurati. I polmoni sono tuoi. — Premetti i pulsanti dell’intercom sulla scrivania finché non ebbi scoperto quale corrispondeva al locale delle ordinanze, e chiesi che la sergente Sambok portasse da fumare. — Dunque — dissi, — vediamo di quadrare intanto questa faccenda. Vuoi aiutarci?
— No — disse semplicemente lui.
— Neppure davanti al rischio di cui ti ho parlato? Neppure quando in ogni caso la tua patria non ha difesa contro di noi?
— Tu hai voluto entrare in questa faccenda, Dominic. Tuo è il compito di portarla avanti. Senza di me. — Il suo tono era definitivo. Si volse alla porta, da cui stava entrando Nyla Sambok con una stecca di sigarette PX per le forze armate.
E tutto ad un tratto il mio poco amichevole doppione lasciò perdere la recita del prigioniero nome/grado/numero di matricola, per assumere un’espressione completamente diversa.
Che diavolo gli stava succedendo? I suoi occhi s’erano sbarrati sulla sergente come dinnanzi a uno spettro. Non avevo mai visto tanto sbigottimento, rabbia e angoscia su un volto umano… tantomeno sul mio!
Un uomo di nome Dominic DeSota era seduto davanti a uno schermo. Le sue dita operavano sui pulsanti, registrando e analizzando. Senza alzare le mani dalla tastiera parlò in un piccolo microfono che aveva agganciato al collo: — Capo? Questo è il più lontano, finora. Sembra che in esso non ci sia assolutamente traccia di vertebrati.
Quando feci ritorno al recinto che era diventato la mia residenza provvisoria, quello eretto nell’area di parcheggio J-3, scoprii di aver perduto la prima colazione. E avevo perduto anche sei dei miei compagni di prigionia. All’interno della rete era rimasta una dozzina dei militari di stanza alla Base, compresi due graduati che adesso (e con l’aria di vergognarsene) indossavano divise del personale di mensa e stavano raccogliendo i vassoi e gli avanzi di cibo lasciati in terra dagli altri. Un soldato in tuta, con una fascia verde al braccio e un’automatica in pugno, li sorvegliava pigramente. Uno di quelli del maggiore DeSota, senza dubbio.
Ma dei pochi civili che quella notte avevano dormito accanto a me avvolti in una coperta non ce n’era più neanche uno. La cosa destò la perplessità del caporale che mi aveva riportato lì, e lo vidi parlottare preoccupato con l’altra guardia. Ma io non mi chiesi dove fossero finiti. Gli interrogativi che mi stavano tormentando erano altri.
E tutti riguardavano una sola persona: Nyla Bowquist!
Non sarei riuscito a esprimere in parole lo sbigottimento provato nel vedere la donna che amavo infagottata in un’uniforme da assalto, con strisce nere di trucco mimetico sulla faccia, una pistola appesa al cinturone, e uno sguardo in cui avevo potuto leggere chiaramente che per lei io ero uno sconosciuto.
Ora che avevo il modo di riflettere mi rendevo conto che secondo ogni probabilità doveva esserci un’altra Nyla nella loro linea temporale, così come c’era un altro Dominic DeSota… e senza dubbio un’altra Marilyn (ma chi aveva sposato là?) e un altro Ferdie Bowquist, e un intero esercito di doppioni. L’altro Dom DeSota non era del tutto uguale a me. Dunque non c’era ragione che anche Nyla non fosse diversa. Questa non era una famosa suonatrice di violino. Portava i capelli più corti e non si metteva l’ombretto sugli occhi. E il suo vestito… be’, era un’uniforme, dopotutto. La mia Nyla si vestiva con eleganza, questa invece non sembrava avere molta scelta.
Ma era così identica da farmi tremare il cuore! E non mi aveva riconosciuto per niente! Oppure aveva visto in me solo una copia di quell’altro Dominic, quello che lei conosceva (conosceva, supposi, ma non in senso biblico). Mi chiesi se l’avrei rivista ancora…
E quel che mi chiesi subito dopo fu se avrei mai rivisto di nuovo la mia Nyla! Eccomi lì, immerso in avvenimenti incredibili, fantastici e pericolosi, e tutto ciò che avevo in mente era la donna con cui avevo una relazione…
— Voi! Prigioniero DeSota! — latrò il caporale, e mi resi conto che stava facendo cenno a me. — Avanti, voialtri, dobbiamo trasferirvi. Voi verrete com me intanto, DeSota.
Girai lo sguardo sugli altri prigionieri. Le loro espressioni erano quelle neutre di chi intende esprimere «Se volete lui OK, io non c’entro». Strinsi i denti. — Cosa significa? — protestai. Ma la sola risposta che ebbi fu un minaccioso cenno del mitra.
Non andammo lontano. Mi fu fatta ripercorrere la strada che avevo appena fatto, fino al Club Ufficiali di fronte alla Casa dei Gatti.