C’ero già stato in precedenza. Parecchie volte. Era una specie di locale di soggiorno dove gli ufficiali sedevano a far quattro chiacchiere davanti a una tazza di caffè, tanto per togliersi dalle loro scrivanie, anche se poi finivano per levarsi di tasca qualche documento e rileggerselo in pace. L’atmosfera all’interno era né più né meno che la solita, benché le nove persone che ci trovai avrebbero evidentemente preferito non essere lì. Due degli scienziati non militari andavano avanti e indietro, sbirciando fuori dalle finestre. Il colonnello Martineau era seduto a parlare con una delle donne, un’esperta in matematica dell’ITT che faceva parte del mio stesso comitato. — Edna. Colonnello — li salutai, con un cenno. Proprio come se fossi capitato lì per prendermi una Coca Cola e nient’altro di strano stesse accadendo.
— Ci chiedevamo dove fossi finito — disse il colonnello.
— Sono stato convocato dall’altro Dominic DeSota. Ben poco simpatico. E mi ha fatto perdere la colazione.
— Se hai qualche quarto di dollaro — disse lui, — c’è un distributore in corridoio e la guardia te lo lascerà usare. — Non avevo moneta, ma la dottoressa Edna Valeska s’era procurata dei quarti di dollaro da qualcuno degli invasori. Erano identici ai nostri, salvo che la faccia era quella di Herbert Hoover. Un analcolico e un paio di sandwich non erano un pasto, ma almeno informarono il mio stomaco che avevo fatto per lui quel che potevo. Mentre mangiavo vidi il colonnello Martineau fare il giro del locale e sbirciare da ogni finestra (scosse il capo: guardie armate dappertutto), controllare poi le altre porte (chiuse) e sollevare il ricevitore del telefono (staccato). Mi sedette di fronte e osservò il lavorio della mia mandibola. — Anche noi siamo stati interrogati — disse. — Sembra che quel che li interessa maggiormente sia tu, Dom… mi correggo, il tuo primo doppio. Quello che scomparve.
— Mi hanno chiesto la stessa cosa — bofonchiai, con la bocca piena di pane e formaggio. — Non ho visto niente di male nel dir loro ciò che sapevo… e non era molto, naturalmente. O avrei dovuto dir loro nome, grado e un numero di matricola che non ho?
Mi fissò sorpreso. Anch’io ero sorpreso, accorgendomi di quant’era stato tagliente il mio tono. — Penso che dovremo suonare a orecchio, senatore — cercò di placarmi lui. Gli chiesi scusa con un sorrisetto, intanto che Edna Valeska si sedeva sulla poltrona alla mia sinistra per unirsi alla conversazione.
— La notizia buona — ci disse, — è che adesso abbiamo la prova che il progetto Casa dei Gatti funziona. Quella cattiva è che loro ci sono arrivati prima di noi e lo stanno usando; e quella ancora peggiore è che nella faccenda sembra essere coinvolta più di una linea temporale. Non ci sono altre ipotesi che spieghino i fatti.
— Anch’io la penso così — fui d’accordo. — Ma chi sono questi altri? — Scossero la testa. — Cristo! Non mi sento adeguato a fronteggiare una cosa del genere.
Edna ebbe un sorriso storto. — Chi lo è?
— Ma è il vostro progetto! — protestai. — Se non capite voi cosa sta succedendo, chi altro potrebbe?
— Ho ammesso che non sono preparata, senatore. Non ho detto che non lo capisco… comunque, non del tutto, certo. — Vide che fissavo la sua sigaretta e mi porse il pacchetto. — Ad esempio — disse, facendo scattare l’accendino, — sappiamo molte cose sulla linea temporale dei nostri visitatori… gli invasori, voglio dire, quelli del vostro alter ego maggiore dell’esercito.
— Sappiamo molto?
— Abbastanza, sì. Ci hanno invaso perché intendono annientare il loro nemico aggirandolo alle spalle, ovvero attraverso la nostra linea temporale. La stessa strategia che stavamo preparando noi.
— Dottoressa Valeska — dissi, — noi non stavamo preparando niente. Lo scopo della Casa dei Gatti era di studiare la fattibilità. Non esisteva nessun piano strategico.
La sua scrollata di spalle m’informò che per lei quella distinzione era accademica. — C’è un’altra solida deduzione, e un altro fatto. La deduzione è che, per quanto abbiano ben sviluppato la loro tecnica di attraversamento fra le realtà parallele, esiste almeno un’altra linea temporale più progredita di loro. Quella che ha prodotto il nostro primo Dominic DeSota.
Notai che non soltanto gli altri presenti nel locale si stavano avvicinando per ascoltare, ma anche la guardia sulla porta tendeva gli orecchi verso di noi. Be’, perché no? Forse avrei potuto dedurre qualcosa dalla sua espressione. — Come lo sapete? — chiesi, controllando la guardia con la coda dell’occhio.
— Perché quest’altra gente… chiamiamoli, per intenderci, America Uno, perché costoro possono proiettare un individuo attraverso l’interfaccia dimensionale e ritirarlo indietro con la massima facilità. Non credo che America Due, gli invasori, riescano a fare altrettanto. — Il modo in cui vidi accigliarsi la guardia me lo fece ritenere plausibile. Anche Edna Valeska, mi parve, aveva notato l’espressione dell’uomo. — Così — concluse, — nella partita c’è un terzo giocatore.
— Dunque potremmo avere un alleato — dissi speranzoso. — America Uno potrebbe ritenersi, come noi, vulnerabile alle mire di America Due.
La guardia ci fissava a occhi stretti, e il suo sguardo preoccupato era confortante. Stavamo parlando di cose che a lui non faceva piacere neppure pensare. Mi volsi a fargli un sorrisetto. Errore. Mi rivolse una smorfia e guardò ostentatamente altrove, il mitra rigidamente inbracciato e la faccia inespressiva. Ma anche quella era una specie di conferma.
— D’altra parte — disse Edna Valeska, — se America Uno avesse avuto intenzione di aiutarci in qualche modo, certo non le sarebbe mancata l’occasione. Non lo hanno fatto.
Questo era abbastanza vero, e cominciai a sentirmi più a disagio della guardia. — Ebbene, qual è quest’altro fatto che conosciamo su America Due, gli invasori? — domandai.
— L’Unione Sovietica è il loro principale nemico.
Dissi: — Sì, così pare. Ma è difficile da credersi! Dopo la guerra atomica, quando i cinesi decapitarono la nazione bombardando Mosca e Leningrado e…
— Certo, Dom — intervenne il colonnello Martineau. — Ma vedi, nel loro universo questo non è successo. Sono notizie che abbiamo messo assieme dopo esser stati interrogati. Sembra che i loro nemici sovietici abbiano combattuto l’ultima guerra intorno al 1940, a quanto ho capito. Hanno assalito la Finlandia, e la Germania ha attaccato loro…
— La Germania!
Martineau annuì. — Da loro i tedeschi non hanno fatto la rivoluzione. A quell’epoca prese il potere un uomo di nome Hitler, e la guerra fu maledettamente dura. I russi la vinsero, e subito dopo occuparono l’Europa dell’est. Il loro capo era un certo Josip Stalin.
Quella era ancora più dura da mandar giù. — Aspetta un momento! Io so chi era Stalin. Governò la nazione per un po’ di tempo, finché non fu assassinato. Conosco personalmente suo nipote. Come forse sai è l’ambasciatore russo presso di noi. Spesso giochiamo a bridge insieme. È un buon amico di… è mio amico — mi corressi. Non volevo menzionare Nyla Bowquist. Gettai un’occhiata alla guardia: con più cautela adesso, tuttavia ci stava ascoltando. — Suo nonno Joe, come lo chiama scherzosamente lui, fu ucciso da non so quale organizzazione di separatisti georgiani. Fu all’epoca in cui quello sciopero generale condusse l’Inghilterra alla rivoluzione. Loro divennero socialisti, come sono ancor oggi, mentre in Russia Litvinov prendeva il potere grazie alle sue connessioni con l’Inghilterra. Aveva una moglie inglese, come saprete. In seguito, nel 1960, in Germania ci fu la controrivoluzione e la Kaiserina tornò a Berlino. E oggi loro e i giapponesi sono i nostri maggiori competitori. — Tacqui. Non volevo sbalordire la guardia. Volevo solo confonderla un po’. Anche se quella mia digressione aveva confuso ancor più Edna e il colonnello.