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Martineau scosse il capo. — Niente di tutto ciò è accaduto nel loro universo — stabilì, secco. — Negli ultimi trenta o quarant’anni loro hanno avuto due vere e proprie superpotenze, la Russia e l’America. E quel che vogliono è distruggere il loro avversario.

La guardia non ci stava più ascoltando. All’esterno del Club c’erano delle voci e l’uomo s’era voltato a guardare quel che stava succedendo. Poiché fino ad allora avevamo parlato più che altro per dedurre qualcosa dalle sue reazioni, quando smise di reagire la conversazione languì.

— Oh, all’inferno! — borbottò uno degli scienziati più giovani, e scosse le spalle come a dire che reputava inutile fare piani di qualche genere. Anche gli altri parvero trovare sufficiente quel commento.

— All’inferno e maledizione — sospirò anche Edna Valeska. — Mio marito si starà preoccupando a morte. Non sopporta neppure che io passi la notte fuori di casa. Vorrei almeno fargli sapere che sto bene.

— Non credo che ve lo permetteranno — dissi.

Il colonnello annuì. — Col lavoro che faccio, mia moglie è abituata a queste cose… cioè, non queste cose, però non si impensierisce se non le telefono regolarmente. So che per i civili è diverso. Scommetto che sei preoccupato per lei, Dom.

— Cosa? Oh, certo — mormorai, ma non aggiunsi anche per lei.

Prima di mezzogiorno ci portarono il pranzo. Si trattò solo di spaghetti e polpette precotti, tirati fuori dal frigo della Mensa Ufficiali, ma la frutta era fresca e il caffè appena fatto. — Ci ingrassano prima di metterci in pentola — fu la facezia di uno degli scienziati, ma i nostri sorrisi si spensero al risuonare di passi militareschi nel corridoio. A entrare furono un soldato col mitra spianato e Nyla. O meglio la sergente Nyla Sambok, alle spalle della quale vennero dentro altri due uomini armati.

La ragazza apprezzò l’attenzione che le prestavamo. — Se volete finire i vostri caffè, prego — disse, — siamo pronti per condurvi in alloggi più confortevoli.

— E dove? — chiese il colonnello Martineau.

— Non lontano da qui, signore. Volete seguirmi, per favore? — La sua voce era quella della mia Nyla. E anche quel «per favore»; un tocco di gentilezza piacevole, pensai, date le circostanze. Lo stesso non si poteva dire del modo in cui i suoi uomini ci stavano puntando addosso le armi. Che avessimo finito il caffè o no, ci alzammo tutti.

Non dovemmo camminare per molto. All’esterno, dopo l’aria condizionata del Club, la calura del deserto ci colpì come l’alito di un drago. Ma il luogo dove venimmo condotti fu di nuovo la Casa dei Gatti, appena di fronte. Scendemmo nel seminterrato dell’edificio, in un locale piuttosto vasto che una volta era stato adibito al tiro a segno. Adesso era pieno di gente con la fascia verde al braccio, e da un lato vidi dei macchinari dall’aspetto di generatori con su stampigliate le lettere OD. Lunghi cavi risalivano all’esterno, in strada, dove si sentiva pulsare sordamente un motore diesel. E mi trovai a guardare una specie di grande schermo rettangolare nero come una notte senza stelle.

Quella fu la prima volta che vidi un portale. Non ci fu bisogno che mi dicessero di cosa si trattava. Era semplicemente una parete di tenebra pura che aleggiava nell’aria, così larga che riempiva l’estremità del locale quasi da un lato all’altro. Mi diede un brivido. Il colonnello Martineau sbottò: — Sergente! Esìgo di sapere che intenzioni avete!

— Sì, signore — fu d’accordo lei. — Un ufficiale vi informerà. Questo è per vostra maggiore comodità e sicurezza, signore.

— Merda secca, sergente!

Ma lei si limitò a ripetere: — Sì, signore — e si allontanò. Dopodiché lei non fu più lì a rispondere alle domande, e le guardie armate, ovviamente, non ci avrebbero dato altra informazione che le loro armi puntate.

La guardai attraversare il locale e raggiungere il mio vecchio e buon doppione maggiore Dominic, che stava discutendo presso uno dei macchinari con un individuo la cui vista mi lasciò un attimo stranito. Più che stranito. Sembrava un civile a disagio in una tuta da fatica militaresca, come me, e il suo profilo mi era familiare. Come me non aveva gradi; e come me non portava la fascia al braccio. Tuttavia non era un prigioniero, poiché era occupato alla regolazione di vari strumenti su un largo pannello. Il maggiore Dominic lo osservava da vicino, e sull’altro lato aveva un soldato con la carabina imbracciata. La sua guardia? E se aveva bisogno di una guardia, ma non era uno di noi, chi era?

Il maggiore me-stesso diede qualche ordine alla sergente Nyla. La ragazza annuì e tornò da noi. — Vi faranno attraversare fra un minuto — ci informò.

— Ehi, un momento, sergente! — ringhiò il colonnello. — Chiedo di sapere dove ci state portando!

— Sì, signore — disse lei. — L’ufficiale le spiegherà tutto.

Martineau sbuffò come un toro. Gli misi una mano su un braccio. — Lei è Nyla Christophe, non è vero? — dissi in tono discorsivo.

Sorpresa sbatté le palpebre. Per la prima volta parve vedermi come un essere umano, non come un pezzo di carne semovente da far spostare qua e là. La carabina che imbracciava anch’ella restò ferma; non era puntata esattamente verso di me, ma le sarebbe bastato girarsi un po’ di più per cacciarmela nell’ombelico. — Questo è il mio nome da ragazza — ammise, con cautela. — Mi conosce?

— Conosco la sua controparte del mio universo — dissi, e sorrisi. — Lei è la mia… uh, amica. È anche una delle più grandi violiniste del pianeta.

I suoi occhi avevano avuto un lampo di curiosità alla parola «amica», ma la sua attenzione s’accese di colpo quando dissi «violinista». Per qualche secondo mi studiò con interesse. Gettò una rapida occhiata al maggiore e tornò a fissarmi. — Di cosa sta parlando? — domandò.

Io dissi: — Zuckerman, Ricci e Christophe. Questi sono i tre violinisti al vertice del mondo della musica, oggi. In questo mondo, intendo. Ieri sera Nyla ha suonato con la National Simphony Orchestra davanti, fra gli altri, al Presidente degli Stati Uniti.

— La National Simphony? — esclamò. Io annuii. — Mio Dio — disse. — Io ho sempre sognato di… si sta prendendo gioco di me, Mr. DeSota?

Scossi la testa. — Nel mio universo lei è sposata a un proprietario di beni immobiliari di Chicago. Ieri sera ha suonato il Gershwin Violin Concerto, con la direzione di Rostropovich. Due mesi fa la sua foto era sulla copertina di People.

Lo sguardo con cui mi considerò era in parte stupito e in parte scettico. — Gershwin non ha mai composto un concerto per violino — affermò. — E cosa sarebbe People?

— È una rivista, Nyla. Lei è famosa.

— Proprio così, sergente — brontolò il colonnello, che ci stava ascoltando con interesse. — Io stesso l’ho sentita suonare.

— Sì? — Era ancora scettica, ma l’idea la stava affascinando.

Accennai gravemente di sì. — E di lei che mi dice, Nyla? — chiesi. — Anche lei suona il violino?

— Lo insegno — disse. — O almeno, lo insegnavo prima d’essere richiamata in servizio.

— Ma sul serio? — esclamai, divertito. — E cosa…

E quello fu tutto ciò che potei dire. — Sergente Sambok! — chiamò un capitano, di fronte allo schermo nero. — Li porti fuori!

La pausa delle chiacchiere era finita. E di colpo tornò ad essere efficiente e professionale, la mia Nyla. Se tornò a posare gli occhi su di me fu con lo stesso interesse che l’uomo con la pistola a chiodi, in un mattatoio, può mostrare per il vitello in arrivo su per la rampa.

— Muovetevi, per favore — ordinò al nostro gruppo, e stavolta il «per favore» significava «senza discutere».