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— Fuori — ordinò la guardia. Uno alla volta saltammo al suolo. Lui ci seguì, mentre l’autocarro si allontanava rombando. La guardia continuò a tenerci sottomira e sott’occhio, e camminando quasi all’indietro andò a scambiare qualche parola con il pilota di uno degli elicotteri. Noi ci guardammo l’un l’altro.

L’altura su cui ci trovavamo era spoglia e sabbiosa. Da li si poteva vedere, a un miglio di distanza, una serie di edifici tipici di una base militare piccola e isolata. La Sandia originale del nostro universo, mi dissi, doveva esser stata così. Sul bordo destro dell’altura su cui eravamo giunti c’era un lungo carrozzone privo della motrice, che dalle finestre supposi essere un ufficio, mentre presso lo scavo stavano altri grossi veicoli contenenti macchinari e generatori, dai quali grossi cavi scendevano fino alle apparecchiature sul fondo della fossa.

Stavo già grondando di sudore. Anche gli altri sbuffavano, ma eravamo troppo tesi per preoccuparci della calura. Edna Valeska mi diede di gomito. — Hanno dovuto scavare per portarsi al livello del seminterrato — disse, accennando alla fossa.

— Cosa?

— Avevano già progettato di sbucare nello scantinato dell’edificio — ripeté lei. — Ma qui non c’era nessun edificio. Così hanno dovuto scavare.

— Ah, certo. — Non mi sembrava importante. A dir la verità la mia testa era un guazzabuglio di riflessioni, e non sapevo neppure quale fosse importante e quale no. Riuscivo a scorgere anche il grosso rettangolo nero, e ne vidi uscire altre due persone: la sergente Nyla e l’uomo che sembrava, ma che aveva detto di non essere, Djugashvili. Scambiarono qualche parola, poi Nyla gli volse le spalle e salì su una jeep.

— Che ne pensate di quelle impalcature? — chiesi.

— A occhio e croce — rispose la dottoressa Valeska, — è la loro soluzione ai problemi di posizione. Dovevano spiarci, penetrare nei laboratori. Alcune di quelle impalcature corrispondono, direi, all’altezza dei pavimenti del nostro primo piano.

Sembrava razionale, anche se l’intera faccenda aveva aspetti che mi riusciva difficile accettare come reali e razionali. Uno degli scienziati più giovani mise il dito sulla piaga: — Secondo voi cos’hanno intenzione di farci? — chiese, con voce tremula.

Nessuno aveva una risposta da dargli. Il colonnello Martineau si avvicinò. — Penso che la sergente ce lo farà sapere, adesso — borbottò, mentre sollevando una nuvola di sabbia la jeep veniva a fermarsi accanto a noi.

Lei non ci disse nulla… o almeno, non direttamente. Appena balzata a terra era andata a parlare coi piloti dei due elicotteri. «Parlare» è un eufemismo, perché dopo qualche istante costoro cominciarono a discutere accanitamente, e non si preoccupavano certo di tener la voce bassa. Nyla li stava facendo incavolare.

L’argomento del loro disaccordo aveva dei singolari punti in comune con il rompicapo dei missionari che devono traghettare il cannibale al di là del fiume. Ogni elicottero poteva portare cinque persone oltre al pilota. Noi eravamo in nove — nove cannibali — e con la guardia dieci. Ma dovevamo dividerci in due gruppi. Solo che nessuno dei due piloti voleva essere quello che avrebbe messo a repentaglio la pelle caricando cinque di noi maniaci sanguinari disperati senza una guardia a tutelarlo.

— Allora si fa così — gridò infine la sergente Sambok: — tu ne prendi quattro, tu altri quattro, e io terrò sotto sorveglianza il maledetto ultimo finché uno di voialtri torna indietro. — E dopo che i piloti ebbero grugnito il loro assenso, mentre la guardia e l’autista della jeep ci facevano salire a bordo, lei puntò un dito su di me.

— Questo lasciatelo da parte — stabilì. — Baderò io a lui fino al prossimo viaggio.

— Sissignora, sergente — belò uno dei soldati. — Ma il maggiore ha detto che…

— Muoviti! — ordinò Nyla. E loro si mossero. Quando furono tutti a bordo degli elicotteri lei si volse a considerarmi attentamente. I suoi occhi mi dissero che non costituivo un problema per una ragazza robusta e armata di un’efficiente carabina. Annuì fra sé. — Non ha senso restare qui a friggerci il cervello — disse. — Andiamo nel rimorchio.

Il carrozzone con le finestre aveva, benedetto lui, l’aria condizionata.

Era anche vuoto. All’apparenza era lì solo per essere usato dagli elicotteristi, e in quel momento costoro non c’erano. Mi fece entrare per primo, e salì soltanto quando fui a distanza di sicurezza. Poi si fermò in un angolo, con dita esperte si fece sgusciar fuori da una tasca due quarti di dollaro e me li porse. — Laggiù c’è un distributore di Coca Cola — disse. — Io sono…, occupata. Apritemi una lattina e mettetemela lì, sul tavolo. — E dopo un momento aggiunse: — Per favore.

Sedette e bevve un lungo sorso di Coca Cola, senza togliermi gli occhi di dosso. Io ricambiai il suo sguardo. Vista a tu per tu, senza nessun altro a distrarci nelle vicinanze, sembrava più identica che mai alla mia Nyla. Oh, certo, indossava qualcosa che lei non si sarebbe messa neppure ad Halloween per una festa in maschera. Ma davanti a me vedevo Nyla Christophe Bowquist.

Naturalmente non era lei. Era Nyla Qualcun Altro. Ma qualunque nome avesse sui documenti era bella e desiderabile come la mia Nyla, il che non era cosa dappoco. Non voglio dire sensuale, benché lo fosse in abbondanza. Il fatto è che c’era di più. Io la amavo. Amai lo sguardo fra perplesso e ironico che mi elargì. Amai il movimento con cui si appoggiò all’indietro, e che fece risaltare i suoi seni al punto che quella tuta da fatica mi parve più bella di un abito d’alta sartoria. E quando parlò amai il suono della sua voce.

— Cos’è questa storia, DeSota? Voglio dire, cos’è quello di cui mi stava parlando?

— Lei è una concertista, tutto qui. Una delle più grandi suonatrici di violino mai esistite.

— Ma non mi dica! Io sono un’insegnante di musica, Mr. DeSota. Ammetto d’aver sempre desiderato suonare con una grande orchestra. Però non l’ho mai fatto.

Scossi le spalle. — Ma ne ha la capacità potenziale — dissi, — perché nel mio universo questo è esattamente ciò che lei è. E c’è un’altra cosa che non le ho detto circa il suo doppione della mia linea temporale e… e me.

Mi gratificò di un’occhiata ironica. Se non borbottò la parola cosa? furono le sue sopracciglia a dirla per lei.

— Noi siamo amanti. Io… io ti amo. Capisci?

Il suo sguardo da divertito si fece sorpreso, con una sfumatura di sospetto. Ma era ancora piuttosto caldo. Caldo per un tipo come Nyla, voglio dire, che era una specialista nel mostrare agli sconosciuti una maschera abbastanza gelida. Era anche lo sguardo con cui Rossana doveva aver considerato Cyrano de Bergerac, quando aveva scoperto che era stato lui, e non quell’ottuso bellimbusto di Cristiano, a scriverle le lettere d’amore. Poi disse: — Questa è una notizia che mi dà, DeSota.

— Non sto cercando d’imbrogliarti, Nyla.

Lei ci pensò su qualche istante, si guardò attorno e sorrise.

— Viste le circostanze — disse, — potrebbe benissimo essere come dice lei. Comunque parliamo di qualcos’altro. Ad esempio, perché ha nominato quel concerto di Gershwin? Morì giovane, dovrebbe saperlo. — Io scossi le spalle; non sapevo molto di lui. — Ha lasciato un sacco di buona musica — continuò lei, mentre io mi accostavo alla finestra per guardar fuori. — Tutta la musica popolare, naturalmente. Oltre alla Rapsodia in Blu, al Concerto in F, e l’Americano a Parigi… ma, sul serio, non ha mai composto nulla per il violino.