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Io stavo osservando il portale, più in basso, dove il Non-Realmente-Djugashvili stava operando su una consolle identica a quella che c’era dall’altra parte. Scossi il capo con decisione. — Ti sbagli, Nyla. Ti sbagli proprio. Non che io sia un esperto di musica classica, questo è certo, ma ho imparato qualcosa standoti attorno… attorno all’altra Nyla. Suonava spesso quel concerto per violino. È molto melodico, il che lo rende facile anche per un incompetente come me. Magari riesco a fischiettartelo… aspetta un minuto. — Camminai su e giù cercando di rammentare l’eccitante e piacevole tema d’apertura che Nyla eseguiva così bene nel suo assolo. Quando cominciai a fischiare seppi che non gli stavo rendendo giustizia, ma uno dei pregi della musica davvero bella è che non si lascia rovinare facilmente.

Lei si accigliò. — Non l’ho mai sentito. Ma è assai piacevole. — E sporse le labbra provando a fischiare a tempo con me.

Anch’io sporsi la labbra, quando mi chinai in avanti per baciarla.

Lei mi restituì il bacio.

O almeno fui quasi certo che me lo stesse restituendo. Potei sentire quelle soffici e dolci labbra aprirsi sotto le mie, ma non volli accertarmene. La colpii alla nuca col taglio della mano, con la stessa durezza che avevo appreso a usare al corso di judo.

Cadde sul pavimento come un sacco vuoto.

Quel genere di combattimento a mani nude era soltanto teoria per me. Non l’avevo mai messo in pratica fino ad allora, salvo che durante gli esercizi dove non si affondano i colpi. Né avevo programmato di farlo, benché una parte del mio cervello continuasse a dirmi che la divisa di Nyla e quella che avevano dato a me erano del tutto uguali, a parte il fatto che lei portava una fascia verde al braccio e una carabina, ed io non avevo né l’una né l’altra.

Quando la vidi abbattersi al suolo non potevo esser sicuro in alcun modo di non averla colpita troppo forte.

Ma allorché poggiai una mano su quel seno, così familiare al tatto come m’era estranea quella stoffa militare, potei sentire che il cuore e la respirazione erano del tutto normali.

— Mi dispiace, tesoro — mormorai. M’infilai sulla manica la sua fascia verde. Raccolsi la carabina dal pavimento, me l’appesi alla spalla, e uscii dal rimorchio senza più voltarmi indietro.

All’età di settantatré anni Timothy McGarren era il portiere notturno dei Lakeshore Tower Apartments. Era stato assunto lì il giorno dell’inaugurazione, lo stesso giorno in cui la direzione della metropolitana lo aveva messo in pensione, ovverosia dieci anni prima. Aveva fatto il percorso dal marciapiede esterno alla porta dell’ascensore tante di quelle volte che avrebbe potuto rifarlo dormendo, o camminando all’indietro. E in realtà lo faceva spesso. Quella sera, infatti, dopo aver tenuto aperta la porta per la vecchia e generosa Mrs. Spiegel, del 26-A, indietreggiò di sei passi. Esattamente fino alla base delle scale. Solo che le scale non erano lì a urtare il suo tacco destro come aveva previsto. Sbilanciato girò su se stesso, agitò le braccia, e precipitò senza un grido per quindici metri finendo nell’acqua con un gran tonfo. Quando riemerse, sputacchiando, ciò che vide furono le luci di Chicago che si specchiavano nel Lago Michigan, a cento metri di distanza da lui.

24 Agosto 1983
Ore 12,30 del mattino — Maggiore DeSota, Dominic P.

La Base che avevamo catturato era piena di comodità e beni di consumo come un grande magazzino sotto le feste natalizie. Quello che apprezzavo di più era l’ufficio del Comandante, a cui erano annesse una sala da pranzo privata e una cucina piena di automatismi. E nel grosso frigo di quella cucina il cuoco aveva scoperto mezza dozzina delle più grosse, morbide e succulente bistecche su cui avessi mai messo i denti. All’ora di pranzo le facemmo fuori. Eravamo in sei a godercele: il colonnello Tempe, che comandava il reparto ricerche nucleari; il maggiore degli MP Bill Selikovitz; il capitano del Corpo Segnalatori, e altri due capitani aiutanti di Tempe; e io. Fino a quel momento rappresentavamo i ranghi direttivi della Base. E i ranghi direttivi hanno i loro privilegi. La tovaglia su cui mangiavamo era di lino ricamato a mano, e così anche i tovaglioli; la posateria era d’argento, e se anche nei bicchieri ci fosse stata soltanto acqua questi erano di cristallo danese. Fuori dalla finestra panoramica, al quarto piano del Quartier Generale, potevamo osservare buona parte dei sessanta edifici che costituivano Sandia, e le jeep degli uomini di Selikovitz che pattugliavano la zona. All’esterno si crepava di caldo, ma nella nostra elegante dimora l’aria condizionata era un balsamo per il morale.

Ciascuno di noi si esibiva dunque al meglio del suo umore.

Uno degli aiutanti del colonnello Tempe stava facendo commenti divertiti sugli astrusi progetti di ricerca che avevano trovato lì: un gruppo di anormali che tentavano di leggere nella mente del nemico; armi chimiche che noi avevamo scoperto, e scartato, cinque anni addietro; armi laser che avrebbero dovuto arrostire un soldato a tre miglia di distanza (a patto che costui se ne stesse immobile per dieci minuti senza spostarsi dal raggio).

Ma il lato comico finiva lì. Certo, quella gente sprecava molti più soldi di noi in ricerche assurde. Però non tutte le loro idee erano assurde. Mentre ci veniva servita la torta di mele e il gelato, il colonnello Tempe cominciò a riferirci cose che non erano affatto da ridere. Lo ascoltammo con attenzione; da lì a qualche ora quella roba sarebbe stata classificata top secret, ma nel frattempo Tempe si compiaceva di parlarcene in via confidenziale. Nel campo della tecnologia nucleare quella gente ci aveva superato di parecchie lunghezze.

— Missili chiamati Cruise — disse Tempe, — simili a piccoli jet che si autoguidano col radar a bassissima quota, troppo veloci per essere intercettati, e con un cervello elettronico che gli dice dove devono andare malgrado ogni eventuale deviazione. Testate multiple: lanciate un missile e dieci miglia più in alto questo si suddivide in sei parti, ciascuna diretta verso un bersaglio. E sottomarini.

Questo mi colse di sorpresa. — Sottomarini? E che diavolo c’è di speciale in un sottomarino?

— Sottomarini a motore atomico, DeSota — disse, con una smorfia. — Brutte bestie, ti dico, di diecimila tonnellate e oltre. Possono stare sott’acqua per dei mesi, dove il nemico non può scovarli; e ciascuno di loro porta venti missili atomici con un raggio d’azione di diecimila miglia. Gesù Cristo! Dimentica il tuo dannato attacco con le armi biologiche! Se potessimo portare uno di quei sottomarini attraverso il portale, allora sì che faremmo piangere i russi!

D’improvviso la torta non ebbe più un sapore tanto buono.

— Ma gli siamo passati sopra come un rullo compressore — obiettò Selikovitz.

Il colonnello annuì. — Li abbiamo colti di sorpresa — disse. — Ma adesso sanno dove siamo.

— Oh, avanti, colonnello! — sbottai. — Non vorranno certo buttare un’atomica su una delle loro basi? — La mia voleva essere un’argomentazione, ma a metà della frase s’era trasformata in una domanda.

Nessuno volle rispondere. Neppure il colonnello. Mandò giù in silenzio un boccone di torta, poi esclamò: — Abbiamo commesso un sacco di errori, maledizione! Sarebbe stato più saggio attaccare l’albero alla radice! Colpire la Casa Bianca. Mettere le manette al loro Presidente. Ordinare quello che ci aspettiamo da loro. E concludere la cosa prima che i russi e i loro dannati satelliti comincino a essere curiosi sulla dannata «fossa archeologica» di questi scavi nel deserto!

Stavano tutti guardando me, e desiderai non aver aperto bocca. Chi ero io per giustificare le decisioni dello Stato Maggiore? Sapevamo benissimo quanto fosse stata dura e dibattuta la questione nelle alte sfere, e nessuno di noi, specialmente io, aveva avuto voce in capitolo nella decisione finale.