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Naturalmente non poteva esser successo niente del genere fra lei e l’altro DeSota. O no? Magruder s’era però voltato a fissare me, e dimenticai i guai della sergente Sambok per pensare ai miei.

Neppure novanta minuti prima ero stato seduto io sullo scranno del giudice, davanti al soldato Dormeyer. Il yo-yo va su e giù.

C’era un’ottima ragione per cui lo chiamavano Facciaditopo: fronte sfuggente, mento aguzzo, un lungo naso appuntito, e a rendere più vivace la somiglianza due baffetti orizzontali dalle punte aguzze in cui c’era più brillantina che nei suoi capelli. Sedeva teso in avanti come se avesse voglia di mordere e ci guardava a occhi stretti, tamburellando con le dita su un bracciolo della poltroncina. Ci lasciò lì in piedi ad attendere finché non ebbe finito di ruminare quel che stava ruminando.

Poi disse: — Ci sono alcune cose che dovete sapere.

Continuammo ad aspettare.

— La prima cosa — ci informò, — è che quella squinzia che qui hanno mandato alla Casa Bianca ha dato una risposta al messaggio del Presidente Brown, e di conseguenza passeremo all’effettuazione della Fase Due.

Fece un’altra lunga pausa.

— La seconda cosa è che io avevo richiesto un elicottero HU-70 da trasporto truppe, per trasferire con la necessaria sicurezza i prigionieri. Ma mi è stato negato, perché qualcuno aveva paura che un satellite russo lo vedesse, e al suo posto hanno mandato due schifosi frullini da uova.

Seguitammo a lasciarci raggelare dal suo sguardo, ma con un lieve filo di speranza in più: stava forse dicendo che avevamo un qualche genere di scusante? Perché, se avessero mandato l’elicottero più adatto, i prigionieri avrebbero potuto starci tutti e l’incidente non sarebbe mai avvenuto. Non si trattava che di una speranza esile, tuttavia era rafforzata dal fatto ovvio che Magruder non intendeva trovar scuse per noi: stava mettendo insieme la storia di copertura con cui proteggere prima di tutto la sua testa.

— Guardate di non fraintendermi — sbottò. — Voi tre siete ancora nella merda fino al collo. Lei, DeSota, perché gli ha dato una divisa. Taccia! — m’interruppe mentre accampavo una spiegazione. — Lei, sergente, per essersi lasciata disarmare. E lei, Williard, per aver permesso a quel figlio di puttana di Douglas di almanaccare coi comandi del portale senza un ufficiale presente. Senza parlare del fatto che non avete mosso un dito per impedire a quei due di passare oltre.

— Generale Magruder — disse disperatamente Willard, — io sono qui come consulente civile, e se esistono delle accuse a mio carico ho il diritto di udirle in presenza di un avvocato. Chiedo di…

— Lei non chiede niente — lo corresse Magruder. — Quello che ora farà, Willard, è di offrirsi volontario insieme a questi due, i quali da adesso sono assegnati al Campo Bolling.

— Il Campo Bolling? — gemette Willard. — Ma è a Washington, Generale. E io non…

Magruder non gli intimò di tacere. Non ne ebbe bisogno: si limitò a fissarlo e l’obiezione si congelò sulla lingua di Willard.

All’esterno si udi avvicinarsi il rombo dei rotori di un elicottero. Quando Magruder ci precedette alla porta e la apri lo vidi atterrare. Il portello scivolò lentamente di lato, il pilota alzò un pollice verso di noi.

— Questo è per voi — disse Magruder. — Vi porterà all’aeroporto, dove un MATS C-III sta aspettando che arriviate. La Fase Due scatterà al più presto.

Quando l’anziano signore, sbirciando fuori dalla porta, si fu accertato che sulle scale non c’erano vicini curiosi o rumori sospetti, scese rapidamente a controllare la cassetta della posta. La preziosa busta marrone con l’assegno dell’Assistenza Sociale era lì. Se la mise in tasca, ciabattò svelto su per le scale, e appena dentro diede tre mandate al catenaccio della serratura. Adesso avrebbe potuto passare qualche serata allegra al Seven Eleven, pagare i conti del droghiere e comprarsi quelle eleganti scarpe nere in vetrina da Macy’s. Non s’accorse del lieve sospiro di… qualcosa… che lo sfiorò. Ma quando si volse constatò stupefatto che il suo appartamento era stato saccheggiato! Nello spazio di un minuto il televisore era scomparso, il contenuto degli armadi scaraventato al suolo, le poltrone sventrate, e la cucina era un massacro di stoviglie e cibarie rovesciate dappertutto. Con un gemito aprì la porta della camera: la sua preziosa collezione di stampe era stata fatta a pezzi… e c’era qualcuno steso di traverso sul letto. Un uomo. Aveva la gola tagliata, gli occhi sbarrati, un’espressione di spavento e d’orrore incollata sul volto… e quel volto era il suo.

24 Agosto 1983
Ore 4,20 del pomerìggio — Mrs. Nyla Christophe Bowquist

Avrei dovuto essere già in volo verso Rochester, per gli spot pubblicitari pre-concerto. Non ero stata capace di lasciare Washington. La giornata mi roteava attorno in una serie d’immagini folli, scoordinate, nebulose, e l’ora della partenza era passata senza che me ne accorgessi. Amy mi aveva prenotato un posto su un volo della sera, e le avevo detto di cancellare anche quello. Poi feci ciò che faccio quando mi sento disperata, confusa, stordita e preoccupata: mi esercitai sul violino. Misi nel registratore una cassetta con la parte per orchestra di un pezzo di Čajkowskij, tolsi l’audio al televisore acceso e cominciai a suonare in concerto. Ripetei l’esecuzione più volte, ma i miei occhi non si staccavano dalla TV che ogni venti minuti circa ripeteva la pazzesca trasmissione della sera prima, dove Dom — caro Dom, mio amato, mio amante, mio complice nell’adulterio! — sedeva con quell’untuoso sorriso sul volto e presentava quell’incredibile Presidente degli Stati Uniti, dicendo quelle cose incredibili. I programmi normali erano stati abbandonati, ma tutti continuavano ad occuparsi di quell’unica notizia. Le truppe straniere nel New Mexico tenevano saldamente l’area che avevano invaso, le nostre non le attaccavano, e a Washington nessuno voleva rilasciare dichiarazioni ufficiali.

Non ero la sola persona completamente disorientata e confusa in città, quel giorno. Perfino il tempo era incomprensibile: al largo della costa stava passando una specie di uragano, e i momenti di afoso sereno si alternavano a ondate di pioggia.

Il telefono cominciò a trillare. Jackie mi chiamò due volte, poi entrambi i Rostropovich, e il direttore di scena di Slavi, e poi l’anziana Mrs. Javits… e quindi tutti coloro che sospettavano che io avessi qualche interesse personale per il senatore Dominic DeSota. Prestarono grande attenzione a non dire nulla d’imbarazzante, e furono gentili come al capezzale d’un malato. Dopo le prime conversazioni cominciai a tagliare corto dicendo che non sapevo nulla, non ricordavo nulla, ero così confusa e no, durante la nostra ultima chiacchierata Dom non aveva neppure accennato alla Base di Sandia. Per fortuna non ci furono chiamate da parte della stampa. Il nostro segreto, la nostra vita privata, era momentaneamente al sicuro.

Dedicai qualche istante a compatire la povera Marilyn DeSota, seduta sotto la sua veranda, coi suoi telefoni che squillavano incessantemente, e che si stava domandando cosa accidenti e maledizione aveva combinato l’uomo che s’era preso per marito.

Sì, provai pena per la moglie del mio amante. E non era la prima volta. Però era la prima volta che ciò occupava più di mezzo secondo dei miei pensieri: tanto mi occorreva, di solito, per dirmi che dopotutto la responsabile dell’infedeltà di Dom era lei, e non io.

Comunque questo era quel che mi costringevo a pensare.

E Amy cominciò ad arrivare di continuo… con una tazza di tè, con importanti domande sul vestito che avrei indossato a Rochester, e per chiedere se non avevo dimenticato l’intervista con Newsweek per l’indomani mattina, e per riferire cos’aveva detto l’amministratore di Rochester quando aveva chiamato e io non avevo voluto parlargli.