Trascorsi quel pomeriggio gettando occhiate di desiderio alla piccola piscina che vedevo fuori dalla finestra, sul piazzale, grondando di sudore e con le scottature che non mi davano un attimo di requie. Ma non erano l’insolazione e l’afa a tormentarmi. Da qualche parte, non lontano da lì — e tuttavia disperatamente al di là di qualunque cosa fosse ciò che separava una linea temporale dall’altra — la mia patria era stata invasa, e una mia controfigura s’era mostrata alla televisione per portare avanti i piani dell’invasore. Non riuscivo a ricordare nessun caso nella storia degli Stati Uniti, dalla guerra civile in poi, di un comportamento simile da parte di un senatore democraticamente eletto. Che opinione s’erano fatta di me i miei colleghi?
E cosa stava pensando di me Nyla Bowquist?
Neppure io sapevo bene cosa pensare di me stesso. Le ultime quarantott’ore erano state le peggiori della mia vita. C’era stato lo shock di scoprire che le ricerche della Casa dei Gatti erano una realtà, e che esisteva un numero infinito di mondi dove c’erano un infinito numero di Dominic DeSota, ciascuno indistinguibile da me. Ero stato preso prigioniero da uno di essi. Avevo picchiato una donna che era in tutto e per tutto quella che amavo. Ero stato di nuovo imprigionato e stavolta da un’altra copia di lei, differente solo per i pollici amputati. Avevo rapito un uomo. Mi sentivo stordito al pensiero che la mia nazione era stata attaccata dalla mia nazione. E avevo vagato nel deserto senza cibo né acqua prendendomi delle brutte scottature solari, che mi bruciavano come ustioni.
Bruciavo dentro e bruciavo fuori… e non mi permettevano neppure di rinfrescarmi in piscina. Non che me l’avessero esattamente proibito. Era solo una di quelle cose che potevano esser fatte su espresso ordine di Nyla, e lei se n’era andata per gli affari suoi. Il lavandino nell’angolo non era un buon sostituto. Ogni mezz’ora circa mi spogliavo e mi spruzzavo l’acqua addosso; e ogni quarto d’ora mi applicavo uno strato fresco di quella crema buona a niente che loro chiamavano crema idratante. Questo mi dava qualcosa da fare. Non che mi aiutasse molto.
Un’altra cosa che non mi tirava su di morale era la presenza del mio involontario compagno di viaggio, il Dr. Lawrence Douglas. Per l’intera interminabile giornata non s’era mosso dal letto. C’era poco da meravigliarsene. Aveva passato le mie stesse traversie: la stessa insolazione, le stesse lunghe ore di sete e d’afa marciando nel deserto. E inoltre non solo s’era fatto mordere da un crotalo, non solo gli avevano fatto un’iniezione antivenefica peggiore del morso stesso, ma era stato riempito di non so che droga affinché Nyla Senzapollici potesse interrogarlo. Io non avevo assistito a quel terzo grado, però quando l’avevano riportato dentro in stato d’incoscienza m’ero accorto che alle sue scottature s’erano aggiunti alcuni lividi.
Adesso mi chiedevo se non fosse il caso di svegliarlo, per farlo reagire alla droga.
Non ebbi bisogno di provarci. Quando mi volsi inaspettatamente, dal lavandino, vidi che mi scrutava. Fu svelto a richiudere gli occhi, ma non abbastanza. — All’inferno, Douglas — dissi stancamente. — Se vuoi dormire, dormi. Se vuoi alzarti, alzati. Ma a che scopo fare la commedia?
Per un altro minuto tenne le palpebre serrate con testardaggine, poi parve capire che era una cosa stupida. Si tirò su dal letto, girò attorno lo sguardo in cerca di un gabinetto che non esisteva e poi, senza dir nulla, orinò nel lavandino.
Quand’ebbe finito, sbottai: — Almeno sciacqualo, — Io l’avevo fatto. Non si prese la briga di guardarmi, comunque diede svogliatamente una lavata alla maiolica; poi unì le mani a coppa e bevve, lappando quasi come un gatto. Rifiutava di rivolgermi la parola con ogni suo atteggiamento.
— Bagnati i capelli, ti farà star meglio — consigliai. — E qui c’è della crema per le scottature.
Si raddrizzò lentamente, accigliato, poi tornò a chinarsi e mise la testa sotto il rubinetto. Mentre si asciugava la faccia si volse a borbottarmi scontrosamente quello che interpretai come un «Grazie». Quando girò lo sguardo in cerca della crema gliela porsi con un sorrisetto incoraggiante.
La sua espressione rimase cupa. Pur facendo le debite concessioni a quel che era stato costretto a sopportare, non avevo mai visto un uomo così disperato, risentito e depresso.
Naturalmente anch’io ero alquanto giù di morale. A parte l’accaduto e i dolori che avevo addosso ero preda di una sensazione spiacevole. Mi sentivo sotto costante osservazione, anche se non avevo mai sorpreso le guardie a sbirciar dentro dalla finestra. E c’era un’altra cosa a preoccuparmi. — Senti — dissi, — non è il caso di prendertela così.
Smise di spalmarsi la crema sul viso per elargirmi un’occhiata astiosa. — E come mi consiglieresti di prenderla?
— Già che ci siamo potresti almeno soddisfare la mia curiosità circa un particolare che mi dà da pensare. Quando ti sono venuto accanto, al portale, tu avevi regolato i comandi dell’apparecchiatura approfittando della distrazione di chi ti sorvegliava. Poi hai attraversato con me…
Ebbe una risata amara come un latrato. — Poi mi hai scaraventato dentro, vorrai dire!
— Sì, certo. Ma subito dopo siamo precipitati per quattro metri, dall’altra parte. Cristo! Avresti potuto avvertirmi che c’era un salto — lo accusai, per nessun’altra ragione che dividere le colpe a metà. — Credevo che avessimo fatto ritorno nella mia linea temporale. Ma mentre tu dormivi ci ho pensato sopra.
Fece un grugnito. — DeSota, se hai qualcosa da dire vuoi per favore venire al punto?
— Il punto è: tu dove stavi cercando di andare?
— Cercavo di scappare — borbottò.
— E dove? Ma… questa è la tua linea temporale, no?
— Questo buco d’inferno primitivo? — ringhiò. — No!
— Ma perché…
— Perché non ho tentato di tornare nel mio mondo? Perché non ne ho più uno, DeSota! C’è una sola cosa che voglio, adesso, ed è di starmene alla larga! — Tornò a gettarsi sul letto.
— Ascoltami… — cominciai, in tono ragionevole.
Scosse il capo. — Dimenticatene! — stabilì.
Per il momento decisi di lasciar perdere. Non perché lo diceva lui, ma perché avevo sentito il rumore di un’auto che era venuta a fermarsi nelle vicinanze, fuori vista. M’accostai alla finestra e cercai di capire cosa stava accadendo, ma da lì non si scorgeva niente. Ci fu il rumore delle portiere che sbattevano, poi alcune voci indistinguibili, fra cui quella di una donna. Una voce che conoscevo meglio di ogni altra. Qualche secondo dopo apparve Nyla, sul bordo opposto della piscina, e la giovane donna cominciò a spogliarsi. Non si preoccupò di gettare neppure un’occhiata verso la nostra finestra. Sedette sulle mattonelle, tastò l’acqua con un piede, poi scivolò fuori dalla sottoveste e con un guizzo scomparve sotto la superficie, tappandosi il naso con una mano.
E benché fosse una mano senza il pollice un’altra sensazione, dolorosa e pressante, si aggiunse a quelle che mi stavano opprimendo il sistema nervoso.
Se Nyla Senzapollici non guardò dalla nostra parte, quel che è certo è che io guardai lei. Potevo vedere una delle guardie, appoggiata a una colonnetta davanti all’ufficio del motel, e i suoi occhi non si stavano perdendo niente di quel corpo eccitante e a me così familiare. Perfino Douglas era venuto alla finestra, al mio fianco. — È fatta bene, quella puttana d’inferno — borbottò.