Prigionieri.
Mi fermai sulla soglia a curiosare. Questi non erano i militari dell’Aeronautica da noi catturati a Sandia. Erano soldati che avevano combattuto, e le bende che molti portavano stavano a testimoniarlo. Le differenze fra le nostre uniformi e le loro erano numerose, ma a una prima occhiata non si notavano troppo. Il colore di base era lo stesso verde oliva. I loro gradi erano più piccoli dei nostri, e bordati d’argento invece che in nero. I nastrini sul petto avevano certo significati diversi, e da lontano non potevo comunque vederli bene. Inoltre il capitano degli MP mi stava già indirizzando occhiate ostili, così mi allontanai: avevo l’ordine di presentarmi immediatamente a rapporto da chi occupava le camere «William McKinley», e c’era il caso che la guardia alla porta avesse telefonato per annunciare il mio arrivo.
Se anche l’aveva fatto, nessuno gli aveva badato. La sergente di fureria al tavolo presso la porta non aveva mai sentito il mio nome. Scartabellò fra i suoi fogli, parlò al telefono con una certa «Tootsie», ributtò i fogli sottosopra, infine li lasciò perdere e dichiarò: — Si prenda una sedia, maggiore. La sistemeremo appena possibile.
Non ebbi difficoltà a tradurre: «Appena possibile» significava «Quando qualcuno scoprirà chi diavolo sia e cosa si suppone che sia venuto a fare». Mi rassegnai a trascorrere la successiva considerevole frazione della mia vita a strusciare la schiena sulla spalliera dorata di una delle panche allineate in corridoio.
Non mi annoiai poi tanto. Potei assistere all’ingresso e all’uscita di quasi un centinaio di persone, tutte dal passo molto veloce e che non mi prestarono la minima attenzione. Ma una ventina di minuti più tardi, quando i piedi mi erano stati pestati appena due volte, la sergente si alzò e mi fece un cenno.
— Da questa parte, maggiore — disse. — Il sottotenente Kauffmann l’aspetta.
Mai qualcuno mi aveva aspettato con l’impazienza del sottotenente Kauffmann. La prima cosa che gli uscì di bocca fu:
— Dove diavolo si era cacciato, maggiore? Credevano che fosse già alla Casa Bianca!
— Alla Casa… — esclamai, ma lui m’interruppe:
— Proprio così. E in abiti civili, inoltre. Qui si dice — e sbatté una mano su un foglio che aveva davanti — che lei assomigli moltissimo a un senatore dell’altra parte…
— Un accidente che gli assomiglio. Io sono lui.
Si strinse nelle spalle. — Comunque deve assumere la sua identità. Dopo che la prima ondata avrà occupato la Casa Bianca…
Fu il mio turno d’interromperlo: — Stiamo attaccando la Casa Bianca?
— Ma lei dov’era? — si stupì sinceramente. — Non hanno risposto al nostro messaggio, così siamo passati alle maniere forti. Deve mettersi in borghese, le stavo dicendo, e due guardie in uniforme la scorteranno. A darle istruzioni sarà il direttore del portale, ma se ho capito bene vogliono che trovi la loro Presidente, la catturi e la riporti da questa parte.
— Merdasanta! — dissi. E poi: — Un momento. E se il vero senatore DeSota fosse di là?
— Non c’è — affermò lui con sicurezza. — Non l’ha fatto prigioniero lei stesso?
— Ma è passato… voglio dire, credevo che fosse tornato nella sua linea temporale.
Scrollò le spalle. Traduzione: Non è di competenza del mio dipartimento. — Perciò — continuò, — prenda la sua valigia B-quattro e si metta in borghese, poi la porteremo subito a…
— Non ho con me alcun bagaglio — dissi, — e non ho nessun abito civile.
Sbarrò gli occhi. — Cosa? Per Cristo, maggiore! E io come accidenti dovrei fare per trovarle degli abiti civili? Pensava che glieli avrei comprati in sartoria? Perché, maledizione… — La presenza della sergente, sulla porta, gli ricordò la tattica prevista dal manuale per attaccare un bunker del nemico. — Sergente! — ordinò. — Vada a cercare degli abiti civili per quest’uomo!
Fu cosi che venti minuti più tardi la sergente e io venimmo sbarcati da una limousine Cadillac lunga quanto un pullman dinnanzi a un negozio, la cui insegna al neon diceva: AFFITTO abiti da cerimonia VENDO. Il neon era spento, ma il proprietario aveva riaperto per noi. E dopo altri venti minuti l’uomo tirò giù la saracinesca e ripartimmo per la Casa Bianca. — Ottimo lavoro, sergente — le dissi, semisdraiato sul sedile di pelle nera largo quanto un letto a due piazze. Ammirai i riflessi delle scarpe di vero coccodrillo in affitto, mi lisciai la fascia-cintura di seta in affitto, aggiustai il nodo della cravatta in affitto. Stavo già entrando nella parte di un genuino senatore degli Stati Uniti, reduce da un elegante cocktail party e convocato a tarda ora dal Presidente per un’urgenza alla Casa Bianca. — Credo che l’abito da sera sia stato un’idea vincente — commentai. — È impossibile dire quale sia la moda corrente nella loro linea temporale, ma gli abiti da cerimonia non tramontano mai, no?
— Speriamo — si limitò a dire lei. Da lì a poco fummo all’ingresso dei VIP, e la sergente esibì i nostri documenti a un sospettoso MP spalleggiato da altri due diffidenti MP. Erano tutti armati, ma avrebbero potuto anche farne a meno perché il vialetto d’accesso era sbarrato da un’autoblinda con una mitragliera binata puntata su di noi.
Mi occorse un po’ per rendermi conto che sulla Casa Bianca c’era stato un cambiamento. I riflettori! Non c’erano più… evidentemente il satellite russo era passato oltre, e li avevano tolti. Notai anche qualcos’altro.
Perfino all’inizio del weekend il traffico del dopocena a Washington rallentava molto. Ma non da quelle parti. Intorno a noi c’era un lento e continuo movimento di veicoli, e quelli che avevano smesso di macinare i prati erano parcheggiati sulle aiuole. Il verde della Casa Bianca avrebbe avuto bisogno di cinque anni di giardinaggio prima di dimenticare i cingoli dei tank e degli autocarri che l’avevano arato via… «esercitandosi per la parata», naturalmente.
Era chiaro che non intendevano lasciar passare i comuni civili.
Io non ero però un comune civile. Dopo un po’ ci fu fatto cenno di proseguire. L’autoblinda mise in moto e per darci via libera si spostò sull’erba — altri cento dollari di prato buttati nel gabinetto — e l’autista ci portò davanti a un piccolo porticato che non avevo mai visto. — Buona fortuna — disse la sergente. Esitò, poi si sporse a darmi un bacio su una guancia per dimostrare che diceva sul serio.
Quella doveva essere l’ultima volta per un certo periodo di tempo che qualcuno avrebbe mostrato un po’ d’affetto per me.
L’unica volta che avevo visitato la Casa Bianca era stato durante il secondo mandato di Stevenson, e l’esperienza aveva avuto ben altro sapore. Adesso non c’erano valletti in uniforme a guidarmi in giro, né corde di velluto per tenere i barbari fuori dalle camere sacre. Non c’erano neppure camere sacre. Quello che vedevo erano uomini armati in metà dei locali, e armi o macchinari in quasi tutti gli altri. Un caporale mi scortò a passo di marcia per un corridoio di servizio e su per una larga rampa di scale, quindi sbucai in una sala tappezzata in verde e resa austera dai ritratti dei Presidenti Madison e Taft. Un distributore di caffè caldo piazzato su un tavolo appena oltre la porta, con i bicchieri di carta, le conferiva però un’atmosfera accogliente. Alcune delle sedie allineate alle pareti erano occupate: quattro o cinque civili, fra cui una donna che dovevo aver già visto altrove. Ma conoscevo di vista anche un paio degli uomini, specialmente il negro, un ex campione dei pesi massimi. Dalla parte opposta sostavano otto o nove soldati, con le armi in pugno e l’aria d’esser disposti a usarle.