Appena il pulsojet fu decollato e le scritte in rosso si spensero, sganciai la cintura e mi alzai. Non ero stato il più svelto: una ragazza in muu-muu purpureo era scivolata nel passaggio fra le poltroncine davanti a me, e da sopra la spalla mi rivolse un gentile sorrisetto di trionfo. Ma non era il caso. Lei era diretta alla toeletta, ed io fui il primo a raggiungere il visifono.
A dire il vero ci arrivai troppo presto. Quando composi il nome di casa mia ebbi soltanto una luce gialla, perché non eravamo ancora in quota e il pilota stava tenendo per sé tutte le frequenze video. Rifeci il nome. Ero impaziente. Mancavo già da troppo tempo per i miei gusti. La prima volta che avevo dovuto andare in un’altra linea temporale mia moglie m’aveva tenuto sveglio tutta la notte con le sue paure: non riusciva a dimenticare quel che era successo con Larry Douglas. Sklodowska-Curie distava comunque appena sei chilometri da casa mia e quel primo balzo, nel Paratempo-Rho, era stato un semplice passaggio avanti e indietro fatto più che altro per collaudare la nuova apparecchiatura.
La faccio sembrare più semplice di quello che era. In realtà avevo la pelle d’oca. Ma quando poi dirigemmo le nostre ricerche sulle linee temporali che potevano sviluppare studi sul paratempo, o almeno sulla fisica dei quanta, le zone da esplorare cominciarono a incrementarsi anche geograficamente. Il Paratempo-Beta possedeva un’installazione giusto a sud di San Francisco. Il Phi ne aveva una a Red Bank, nel New Yersey. Significava balzare in un portale, tornarne fuori, imbarcarsi su un pulsojet e fare qualche ora di volo, balzare in un altro portale… e avevo una moglie e un figlio con cui mi sarebbe piaciuto trascorrere più tempo.
La terza volta che composi il nome sullo schermo apparve finalmente la sigla «DeSota-Arbenz» che pulsava a ogni squillo. Dorothy rispose al primo. Poche cose mi smorzavano l’ansia come il volto dolce e calmo di lei che mi sorrideva dal visifono.
— Hai un aspetto incantevole, Do — le dissi, dopo averla salutata con un bacio. Lei studiò il mio volto, dalla sua parte. E poiché l’apparecchio di casa nostra aveva la telecamera posta sopra lo schermo il suo sguardo mi apparve fuori fuoco, come se avesse dimenticato le lenti a contatto, ma la sua vista era perfetta.
— Vorrei poter dire lo stesso di te, caro — rispose. — Le cose non vanno bene?
Non potevo dirle fino a che punto non andassero bene, da un apparecchio pubblico. Ma non aveva bisogno di risposte: poteva vedere la mia faccia. Dissi: — Abbastanza male. Come sta Barney?
— Sente la mancanza del suo papi. Per il resto tutto bene. Ha perso un dente. — L’avevo sorpresa con una tazza di caffè in mano e ne bevve un sorso, scrutandomi. — Non è soltanto che hai dei problemi… mh? — osservò. — Hai qualcos’altro per la mente. Di che si tratta, Dominic?
Dovetti ridacchiare, sorpreso. — Hai detto bene, Do. Mi sento… strano. Non so perché.
Lei annuì. Stavo solo confermando quello che sapeva già. Quando Dorothy Arbenz era stata assunta all’istituto, fresca di laurea in psicologia, mi era bastato guardarla negli occhi per capire che dietro quel volto incantevole c’era un cervello. Più tardi ero stato costretto a riflettere che mi avrebbe praticamente letto nella testa per tutta la vita, ma l’avrei sposata lo stesso in ogni caso. Lasciò che il mio subconscio si preoccupasse di quello che lo preoccupava e cambiò argomento. — Stai tornando a casa, adesso?
— Vorrei. Non è una faccenda di cui ci si possa occupare a Sklodowska, tesoro.
— Vai a Washington?
— Ho paura di sì.
Bevve un altro lungo sorso di caffè. Anch’io avevo cominciato a leggere un po’ nella mente di Dorothy, così sapevo cosa stava per dire. — Ti faranno saltare ancora in qualche portale? — chiese.
Non le diedi una risposta diretta. — Non dipende più da me, adesso — le ricordai. Lei sapeva che quella non era una risposta. E sapeva, come lo sapevo io, che se fossi ripassato in un portale non sarebbe stata una passeggiatina tanto per guardarmi intorno.
Così la salutai e le mandai un bacio, e lei me ne soffiò un altro dalla mano. Poi riappesi e indugiai sul sedile davanti al visifono, cercando di scoprire cosa mi stava preoccupando.
Sapevo cos’era. L’avevo saputo fin dall’inizio, solo che non avevo voluto pensarci.
C’erano troppi me.
Quando m’ero infiltrato nel Tau e nell’Epsilon avevo visto gli altri Dominic DeSota, ma soltanto nel trovarmi con loro nella stessa stanza quel fremito di meraviglia — arcano timore, incredulità, un senso di gelo nelle ossa — mi aveva realmente scosso. Voglio dire, loro erano me. Non quel «me» con cui avevo vissuto la mia vita, bensì le persone che avrei potuto essere… che nella loro linea temporale ero. Avrei potuto nascere in una variante della realtà dove scienza era una parola oscena, o dove sarei divenuto un adultero indaffarato a cercare furtivi incontri con una donna che non potevo sposare, o un individuo terrorizzato dal mio governo, tenuto in riga da un sistema oppressivo che mi costringeva a vergognarmi della mia stessa nudità. Avrei potuto, senza accorgermene, diventare quel Nicky DeSota la cui nuca potevo scorgere una dozzina di file più avanti, e in un certo senso io ero lui. O avrei potuto lasciare la scienza per la politica e finire eletto senatore degli Stati Uniti. Be’, questo non era certo un destino malvagio — prestigio, potere, la stima di tutti i miei conoscenti — ma aveva qualcosa di vacillante: là lui era, o io ero, assillato dai sotterfugi di una relazione illegale con un’altra donna poiché avevo una moglie che non amavo e di cui non potevo liberarmi senza dolore e rimorsi, per non parlare della rovina politica e finanziaria.
O avrei potuto intraprendere la carriera militare come l’altra mia incarnazione, il maggiore, che si sentiva realizzato in atti di conquista e di disonestà intellettuale… O avrei potuto morire giovane per una ragione o per l’altra, come sembrava esser successo al Dominic DeSota di Rho.
E tutti quei me erano me.
Questo era frustrante. Ne sentivo minacciata la stabilità della mia vita in modi a cui non mi era mai accaduto di riflettere. Chiunque, certo, sapeva dirsi che le cose avrebbero potuto andare diversamente per lui… ma era un’altra cosa toccare con mano il fatto che, da qualche altra parte, questo era successo.
Riportai lo sguardo sui due che viaggiavano con me. Anche da una dozzina di file di distanza potevo intuire che Nicky stava vivendo il momento magico della sua vita nel grande pulso-jet, che con lo scarso traffico del sabato prima del Labor Day era mezzo vuoto. Anche il senatore appariva eccitato. Invidiavo la gioia che riuscivano a ricevere da ciò che li circondava, malgrado dovessero sentirsi sperduti in una linea temporale aliena dalla loro quanto il pianeta Marte…
Poi gli occhi mi caddero sul tipo dall’aria manageriale del 32-C, che aveva aperto la ventiquattrore sul posto vuoto accanto al suo. Ne aveva estratto dei documenti, ma stava lanciando occhiate irritanti e allusive a me e al visifono.