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Harlan Ellison

«Pentiti, arlecchino!» disse l’Uomo del Tic-Tac

Vi sono sempre quelli che domandano: Perché? A quelli che sentono il bisogno di chiederlo, a quelli che hanno bisogno di precisazioni, che vogliono sapere, ecco:

«In maggioranza gli uomini servono quindi lo stato, non principalmente come uomini, ma come macchine, con i loro corpi. Sono l’esercito in servizio permanente effettivo, e la milizia, le guardie carcerarie, i poliziotti, gli aiutanti volontari degli sceriffi, eccetera. In molti casi, non vi è un libero esercizio del giudizio o del senso morale: essi si pongono invece sullo stesso piano del legno, della terra e delle pietre; e forse si potrebbero fabbricare uomini di legno che servano agli stessi scopi. Costoro non meritano più rispetto degli uomini di paglia o di un grumo di fango. Hanno lo stesso valore dei cavalli e dei cani. Eppure costoro vengono comunemente considerati buoni cittadini. Altri — come molti legislatori, politici, avvocati, ministri del culto e funzionari — servono lo stato soprattutto con la testa; e poiché raramente operano distinzioni morali, senza volerlo servono il Diavolo quanto Dio. Pochissimi, come gli eroi, i patrioti, i martiri, i riformatori nel senso più nobile, e gli uomini, servono lo stato anche con la loro coscienza, e quindi necessariamente in maggioranza gli resistono; e vengono comunemente trattati da esso come nemici».

Henry David Thoreau
“Disobbedienza Civile”

Questo è il nucleo. Adesso cominciate a metà, e più tardi apprenderete l’inizio; la fine verrà da sé.

Ma perché era il mondo che era, il mondo come lo avevano lasciato diventare, per mesi e mesi le sue attività non destarono l’attenzione allarmata di Quelli Che Facevano Funzionare La Macchina, quelli che spargevano il burro migliore sulle camme e sulle molle principali della cultura. Solo quando divenne evidente che, chissà come, era divenuto una celebrità, una personalità, forse addirittura un eroe per quella che inevitabilmente le Autorità etichettavano come “una parte emotivamente squilibrata della popolazione”, affidarono la faccenda all’Uomo del Tic-Tac e al suo macchinario legale. Ma ormai, poiché era il mondo che era, e loro non avevano potuto prevederlo — forse era un ceppo d’una malattia ormai estinta da molto tempo, rinato all’improvviso in un sistema in cui l’immunità era stata dimenticata — gli era stato permesso di diventare troppo reale. Adesso aveva forma e sostanza.

Era diventato una personalità, una cosa che loro avevano eliminato dal sistema già molti decenni prima. Ma era così, e c’era lui, una personalità decisamente imponente. In certi ambienti — gli ambienti del ceto medio — la cosa veniva considerata disgustosa. Ostentazione volgare. Anarchica. Vergognosa. In altri ambienti c’erano solo risolini, negli strati in cui il pensiero è asservito alla forma e al rituale, alla correttezza, ai convenevoli. Ma più giù, oh, molto più giù, dove la gente aveva sempre bisogno di santi e di peccatori, di panem et circenses, eroi e cattivi, era considerato un Bolivar; un Napoleone; un Robin Hood; un Dick Bong (Asso degli Assi); un Gesù; un Jomo Kenyatta.

E al vertice — dove ogni fremito e ogni vibrazione minacciano di spodestare i ricchi, i potenti e i titolati dalle loro rocche — era considerato una minaccia; un eretico; un ribelle; un disonore; un pericolo. Era conosciuto giù giù per la catena gerarchica, fino al nucleo, ma le reazioni importanti erano in alto in alto e in basso in basso. Al vertice, e in fondo.

Perciò venne tirato fuori il suo incartamento, insieme alla sua scheda oraria e alla sua cardiolastra, e tutto venne consegnato nell’ufficio dell’Uomo del Tic-Tac.

L’Uomo del Tic-Tac: alto molto più di un metro e ottantacinque, spesso taciturno, un uomo morbido che faceva le fusa quando le cose andavano bene. L’Uomo del Tic-Tac.

Persino negli ambienti della Gerarchia, dove la paura veniva generata, di rado subita, veniva chiamato l’Uomo del Tic-Tac. Ma nessuno lo chiamava così al cospetto della sua maschera.

Non si chiama un uomo con un nome odiato, quando quell’uomo, dietro la sua maschera, è capace di revocare i minuti, le ore, i giorni e le notti, gli anni della vostra vita. Era chiamato Maestro Cronometrista, in sua presenza. Era meno pericoloso.

— Questo è ciò che è — disse l’Uomo del Tic-Tac con autentica dolcezza. — Ma non chi è. La scheda oraria che tengo nella mano sinistra reca impresso un nome, ma è il nome di ciò che è, non chi è. Questa cardiolastra che tengo nella mano destra reca pure impresso un nome, ma di ciò che è nominato, non di chi. Prima di poter operare una regolare revoca, debbo sapere chi è.

Ai suoi collaboratori, tutti i furetti, tutti i confidenti, tutti gli spioni, tutti gli informatori, persino i commessi, disse: — Chi è questo Arlecchino?

Non faceva le fusa. Dal punto di vista del tempo, strideva.

Tuttavia, quello era veramente il discorso più lungo che gli avessero sentito pronunciare in una volta sola i collaboratori, i furetti, i confidenti, gli spioni, gli informatori, ma non i commessi, che di solito comunque non erano lì per poterlo sapere. Ma anch’essi si precipitarono per scoprirlo.

Chi è l’Arlecchino?

Lassù, sopra il terzo livello della città, stava rannicchiato sulla ronzante piattaforma d’alluminio della scialuppa aerea (puah! scialuppa aerea, proprio! era una barchetta raffazzonata in qualche modo) e guardava, laggiù, l’ordinata disposizione degli edifici, che sembrava un quadro di Mondrian.

Nelle vicinanze, sentiva il ritmo da metronomo sinist-destr-sinist del turno delle 2.47 pomeridiane, che entrava un minuto dopo, udì il più sommesso destr-sinist-destr della formazione delle 5.00 antimeridiane che tornava a casa.

Un sogghigno da folletto si schiuse sul volto abbronzato, e per un momento apparvero le fossette. Poi, grattandosi il ciuffo scarmigliato di capelli rossi, scrollò le spalle entro l’abito variegato, come se si preparasse a ciò che stava per accadere, e spostò in avanti la leva, e si piegò nel vento mentre la scialuppa aerea scendeva in picchiata. Sfiorò un marciapiede mobile, abbassandosi volutamente di qualche spanna per sgualcire i nastri delle signore alla moda e, infilandosi i pollici nelle grosse orecchie, cacciò fuori la lingua, roteò gli occhi e fece wugga-wugga-wugga. Fu una diversione di poco conto. Una donna sdrucciolò e cadde, spargendo pacchetti tutto intorno, un’altra se la fece addosso, una terza si accasciò di traverso, e il marciapiede mobile venne bloccato automaticamente dai serventi, in attesa che si riuscisse a farla rinvenire. Fu una diversione di poco conto.

Poi lui si allontanò volteggiando su una brezza vagabonda, e sparì. Ih-oh.

Mentre girava intorno al cornicione del palazzo del Time-Motion Study, vide quelli del turno, che stavano appunto salendo sul marciapiede mobile. Con gesti esperti e con un’assoluta conservazione del movimento, salirono lateralmente sulla corsia più lenta e poi (in una fila da balletto che ricordava un film di Busby Berkeley degli antidiluviani Anni Trenta) avanzarono attraverso le corsie, camminando come struzzi, fino a quando furono allineati sull’espressovia.

Ancora una volta si schiuse il sorriso da folletto, e mancava un dente, là indietro, sulla sinistra. Si tuffò, li sorvolò in picchiata; e poi, rigirandosi sulla scialuppa aerea, tolse i cavicchi che tenevano chiuse le estremità dei suoi trogoli fatti in casa, e che impedivano al suo carico di rovesciarsi prematuramente. E mentre sfilava i cavicchi, la scialuppa aerea sorvolava gli operai della fabbrica, e centocinquantamila dollari di gelatine si rovesciarono in una cascata sull’espressovia.