Spiegai educatamente che il greco che avevo scritto sulla pergamena era una citazione da un’altra opera. Il mio testo era in latino. E ricominciai a scrivere.
«Ma sei di razza celtica, no?» mi chiese questa volta lo sconosciuto.
«Per la verità, no. Sono romano», risposi.
«Sembri uno di noi celti», disse. «Sei alto come noi e cammini come noi.»
Era una strana affermazione. Ero seduto da ore, a sorseggiare lentamente il vino. Non avevo affatto camminato. Ma spiegai che mia madre apparteneva al popolo dei celti, anche se non l’avevo conosciuta. Mio padre era un senatore romano.
«E cosa scrivi in greco e in latino?» mi chiese, «Che cosa accende la tua passione?»
Non risposi subito. Incominciava ad affascinarmi. Ma a quarant’anni sapevo per esperienza che molti di coloro che s’incontrano nelle taverne sembrano interessanti per i primi minuti, poi cominciano ad annoiare.
«I tuoi schiavi», annunciò l’uomo in tono solenne, «dicono che stai scrivendo una grande storia.»
«Davvero?» replicai, un po’ seccato. «E dove sono i miei schiavi?» Mi guardai di nuovo intorno. Non si vedevano. Poi ammisi che in effetti scrivevo un’opera storica.
«E sei stato in Egitto», continuò lui. Posò la mano sul tavolo.
M’interruppi e lo scrutai di nuovo. Aveva qualcosa di ultraterreno: il modo in cui stava seduto, il modo in cui usava la mano per gesticolare. Era la dignità dei primitivi, che spesso li fa apparire depositali di un’immensa sapienza, quando in realtà possiedono soltanto un’immensa convinzione.
«Sì», ammisi con una certa diffidenza. «Sono stato in Egitto.»
Evidentemente questo lo soddisfece. I suoi occhi si dilatarono un po’, quindi si socchiusero; fece un piccolo movimento con le labbra, come se parlasse a se stesso.
«E conosci la lingua e la scrittura degli egizi?» chiese aggrottando la fronte. «Conosci le città egiziane?»
«La lingua come viene parlata, sì, la conosco. Ma se ti riferisci all’antica scrittura, non la so leggere, e non conosco nessuno che sappia farlo. Ho sentito dire che non ci riescono neppure i vecchi sacerdoti egizi; non sono capaci di decifrare metà dei testi che copiano.»
Rise, stranamente. Non capivo se la mia risposta lo eccitava o se sapeva qualcosa che io ignoravo. Parve trarre un respiro profondo e dilatò un poco le narici. Poi il suo volto si ricompose. Era davvero un uomo splendido.
«Gli dèi la sanno leggere», bisbigliò.
«Allora vorrei che me l’insegnassero», replicai garbatamente.
«Davvero?» esclamò sbalordito l’uomo. Si tese verso di me. «Ripetilo!»
«Scherzavo», dissi. «Volevo semplicemente affermare che mi piacerebbe saper leggere l’antica scrittura egizia. Se lo sapessi, potrei conoscere molte verità sul popolo dell’Egitto anziché tutte le assurdità scritte dagli storici greci. L’Egitto è una terra incompresa…» M’interruppi. Perché parlavo dell’Egitto a quell’uomo?
«In Egitto vi sono ancora vere divinità», disse lui in tono grave. «Divinità che vi dimorano da sempre. Sei stato nel fondo dell’Egitto?»
Era un modo bizzarro di esprimersi. Gli raccontai che avevo risalito il Nilo per un lungo tratto e avevo visto molte meraviglie. «Ma circa al fatto che vi siano vere divinità», dissi, «stento ad accettare l’esistenza di dèi con teste di animali…»
Scrollò il capo, quasi tristemente.
«Gli dèi veri non chiedono che gli si erigano statue», disse. «Hanno teste umane e appaiono come vogliono, e vivono come vivono le messi che spuntano dalla terra, come vivono le cose sotto il cielo, persino le pietre e la luna che divide il tempo nel grande silenzio dei suoi cieli immutabili.
«È molto probabile», dissi sottovoce. Non volevo turbarlo. Dunque era zelo, quel miscuglio d’intelligenza e di puerilità che avevo percepito in lui. Avrei dovuto saperlo. E ricordai qualcosa degli scritti di Giulio Cesare; l’affermazione che i celti discendevano da Dis Pater, il dio della notte. Quello strano individuo lo credeva?
«In Egitto vi sono vecchi dèi», disse a voce bassa. «e vi sono vecchi dèi in questa terra, per coloro che sanno adorarli. Non mi riferisco ai vostri templi, intorno ai quali i mercanti vendono gli animali che profanano gli altari e di cui poi i macellai smerciano la carne rimasta. Io parlo del vero culto, del giusto sacrificio al dio, l’unico sacrificio a lui gradito.»
«Alludi al sacrificio umano, no?» chiesi sommessamente. Cesare aveva descritto quella pratica dei celti, e mi agghiacciava il sangue il solo pensiero. Naturalmente, nell’arena di Roma avevo visto morti orribili, e morti orribili nei luoghi delle esecuzioni: ma i sacrifici umani agli dèi non li compivamo più da secoli, se mai li avevamo compiuti.
Adesso capivo chi poteva essere quell’uomo straordinario: un druido, membro dell’antica casta sacerdotale dei celti, che Cesare aveva egualmente descritto; una casta così potente che, a quanto ne sapevo, non esisteva nulla di simile in tutto l’impero. Ma non doveva più esistere neppure nella Gallia romana.
Naturalmente, nelle descrizioni i druidi portavano sempre lunghe vesti bianche. Andavano nelle foreste e coglievano il vischio sulle querce con i falcetti cerimoniali. E quell’uomo sembrava piuttosto un contadino o un soldato. Ma quale druido avrebbe indossato le vesti bianche in una taverna del porto? E poi non era più permesso ai druidi andare in giro come druidi.
«Credi davvero in questo vecchio culto?» chiesi tendendomi verso di lui. «E sei giunto nel fondo dell’Egitto?»
Se era un druido vero, si trattava di una conoscenza molto interessante, pensavo. Avrei potuto indurlo a dirmi sul conto degli dèi celti molte cose che nessuno conosceva. E cosa c’entrava l’Egitto, fra l’altro?
«No», rispose. «Non sono stato in Egitto, anche se è di là che sono venuti i nostri dèi. Non è mio destino andare laggiù. Non è mio destino imparare a leggere l’antica lingua. La lingua che parlo è sufficiente per gli dèi: l’ascoltano.»
«E che lingua è?»
«La lingua dei celti, naturalmente», disse lui. «Lo sai senza bisogno di chiederlo.»
«E quando parli ai tuoi dèi, come sai che ti odono?»
Dilatò di nuovo gli occhi e schiuse la bocca in un’inequivocabile espressione di trionfo.
«I miei dèi mi rispondono», disse.
Senza dubbio era un druido. E all’improvviso mi sembrò che irradiasse una certa luce. Lo immaginai avvolto nelle vesti bianche. Credo che se in quel momento fosse avvenuto un terremoto a Massilia, non me ne sarei accorto.
«Allora tu li hai uditi», dissi.
«Ho veduto i miei dèi», rispose. «E mi hanno parlato, con le parole e nel silenzio.»
«E che cosa dicono? Che cosa fanno che li rende diversi dai nostri dèi? A parte la natura del sacrifìcio, voglio dire?»
La sua voce assunse le cadenze riverenti di un canto. «Fanno ciò che gli dèi hanno sempre fatto: dividono il male dal bene. Inviano benedizioni a coloro che li adorano. Pongono i fedeli in armonia con tutti i cieli dell’universo, con i cicli della luna, come ti ho detto. Rendono fruttifera la terra, gli dèi. Tutto ciò che è bene procede da loro.»
Sì, pensai: la religione più antica nella sua forma più semplice, quella forma che esercitava ancora un grande fascino sulla gente comune dell’Impero.
«I miei dèi mi hanno mandato qui a cercarti», disse l’uomo.
«A cercare me?» chiesi, sbalordito.
«Comprenderai tutte queste cose. Così come imparerai a conoscere il vero culto dell’antico Egitto. Te l’insegneranno gli dèi.»
«E perché dovrebbero farlo?» domandai.
«La risposta è semplice», disse l’uomo. «Perché diventerai uno di loro.»
Stavo per replicare, quando sentii un colpo violento alla testa, e il dolore si sparse come acqua nel mio cranio. Compresi che stavo perdendo i sensi. Vidi la tavola sollevarsi, vidi il soffitto in alto sopra di me. Avrei voluto dirgli: se è un riscatto che vuoi, portami a casa mia, dal mio intendente.