Ma già in quel momento sapevo che le regole del mio mondo non contavano nulla.
Quando mi svegliai, era giorno. Ero sopra un grosso carro che procedeva velocemente su una strada sterrata attraverso l’immensa foresta. Ero legato mani e piedi, sotto una coperta leggera. Potevo vedere a destra e a sinistra attraverso le sponde di vimini, e vedevo cavalcare l’uomo che aveva parlato con me. E c’erano altri, tutti vestiti dei calzoni e delle casacche di pelle, e portavano spade e bracciali di ferro. I loro capelli sembravano quasi bianchi nei tratti assolati, e non parlavano mentre cavalcavano insieme a fianco del carro.
La foresta sembrava fatta per i Titani. Le querce erano antiche ed enormi, i rami s’intrecciavano bloccando quasi tutta la luce; per ore procedemmo in un mondo di fronde verdi e umidità e ombre.
Non ricordo di aver visto città o villaggi. Ricordo soltanto una rozza fortezza. All’interno scorsi due file di case dal tetto di paglia, e dovunque i barbari vestiti di pelle. E quando fui condotto in una delle case, bassa e buia, e fui lasciato solo, quasi non riuscivo a reggermi per i crampi alle gambe. Ero diffidente e furioso.
Capivo di trovarmi in un rifugio indisturbato degli antichi celti, i guerrieri che avevano saccheggiato il grande santuario di Delfì pochi secoli prima, e la stessa Roma in un’epoca poco più tarda; i guerrieri che erano andati nudi in battaglia contro Cesare suonando le trombe e spaventando con le loro grida i disciplinati soldati romani.
In altre parole, ero lontano da tutto ciò su cui potevo contare. E, se la promessa di diventare uno degli dèi significava che ero destinato a venire sacrificato su un altare insanguinato in un bosco di querce, avrei fatto meglio a tentare di fuggire in fretta.
6.
Allorché il mio catturatore ricomparve, indossava la favoleggiata veste bianca, e i ruvidi capelli biondi erano pettinati. Appariva immacolato, imponente e solenne. C’erano altri uomini alti e biancovestiti, alcuni vecchi, altri giovani, tutti con gli stessi capelli biondi, che erano entrati dietro di lui nella cameretta buia.
Mi circondarono in un cerchio silenzioso. E, dopo una lunga pausa, passò tra loro un brusio di sussurri.
«Sei perfetto per il dio», disse il mio vecchio, e notai l’espressione soddisfatta di colui che mi aveva portato lì. «Sei ciò che il dio ha chiesto», continuò l’anziano. «Rimarrai con noi fino alla grande festa di Samhain, e allora verrai condotto nel bosco sacro e berrai il Sangue Divino e diverrai un padre di dèi, un restauratore di tutta la magia che ci è stata inesplicabilmente tolta.
«E il mio corpo morirà, quando avverrà questo?» domandai. Guardavo le facce magre e grifagne, gli occhi indagatori, la grazia scarna con cui mi circondavano. Quella razza doveva aver ispirato un grande terrore quando i suoi guerrieri erano piombati sui popoli mediterranei. Non era sorprendente che si fosse scritto tanto sulla loro audacia. Ma questi non erano guerrieri. Erano sacerdoti, giudici e insegnanti. Erano gli istruttori dei giovani, i custodi della poesia e delle leggi che non venivano mai scritte.
«Morirà di te solo la parte mortale», disse il druido che mi aveva abbordato nella taverna.
«È una grande sventura», dissi. «Perché io non sono nient’altro.»
«No», replicò lui. «La tua forma rimarrà e sarà glorificata. Vedrai. Non temere. Inoltre, non c’è nulla che tu possa fare per cambiare la realtà. Fino alla festa di Samhain, ti lascerai crescere i capelli e imparerai la nostra lingua, i nostri inni e le nostre leggi. Avremo cura di te. Il mio nome è Mael, e t’istruirò io stesso.»
«Ma io non voglio diventare un dio», risposi. «E sicuramente gli dèi non vorranno qualcuno che è riluttante.»
«Sarà il vecchio dio a decidere», disse Mael. «Ma io so che quando berrai il Sangue Divino diventerai il dio, e tutto ti apparirà chiaro.»
La fuga era impossibile.
Ero sorvegliato giorno e notte. Non mi lasciavano coltelli che avrei potuto usare per tagliarmi i capelli o farmi del male. Per gran parte del tempo giacevo nella buia stanza vuota, ubriaco di birra di grano e sazio dei ricchi arrosti che mi davano da mangiare. Non avevo niente da usare per scrivere, e questo mi faceva soffrire.
Per vincere la noia ascoltavo Mael quando veniva per istruirmi. Lasciavo che cantasse inni e recitasse antiche poesie e parlasse delle leggi; e ogni tanto ribattevo che un dio non avrebbe avuto bisogno di essere istruito.
Mael lo ammetteva: ma poteva solo cercare di farmi capire ciò che mi sarebbe accaduto.
«Puoi aiutarmi ad andarmene da qui, puoi venire a Roma con me», gli dicevo. «Ho una villa affacciata sulla baia di Napoli. Non hai mai visto un luogo tanto bello, e io ti lascerò vivere là per sempre se mi aiuterai; e ti chiederò soltanto di ripetere gli inni e le preghiere e le leggi perché io possa trascriverli.»
«Perché cerchi di corrompermi?» ribatteva. Ma vedevo che era tentato dal mondo da cui ero venuto. Confessò che per settimane, prima del mio arrivo, aveva vagato nella città greca di Massilia, che amava il vino romano e le grandi navi che aveva visto nel porto, e i cibi esotici che aveva assaggiato.
«Non cerco di corromperti», dicevo. «Io non credo in ciò che credi tu, e tu mi hai fatto prigioniero.»
Ma continuavo ad ascoltare le sue preghiere, per curiosità, e temevo ciò che mi si approntava.
Cominciai ad attendere le sue visite, quei momenti in cui la sua figura chiara sembrava illuminare la stanza spoglia come una luce bianca, e la sua voce misurata riversava tutte le antiche, melodiose assurdità.
Ben presto apparve chiaro che i suoi versi non rilevavano storie collegate tra loro degli dèi, come le conoscevamo in greco e in latino. Ma le caratteristiche delle divinità incominciavano a emergere in molte strofe. Alla tribù celeste appartenevano dèi di tutti i tipi possibili e immaginabili.
Ma il dio che io dovevo diventare esercitava il potere più grande su Mael e su coloro che istruiva. Non aveva nome, il dio, sebbene avesse numerosi titoli: il Bevitore di Sangue era quello che ricorreva più spesso. Poi c’erano il Bianco, il Dio della Notte, il Dio della Quercia, l’Amante della Madre.
Il dio esigeva sacrifici cruenti a ogni plenilunio. Ma in occasione di Samhain (il primo novembre dell’attuale calendario cristiano, il giorno che è diventato la festa di Ognissanti o il giorno dei Morti), il dio accettava il numero più grande di sacrifìci umani davanti all’intera tribù, per accrescere i raccolti, e pronunciava ogni sorta di predizioni e di giudizi.
Serviva la Grande Madre, colei che non ha forma visibile ma è purtuttavia presente in ogni cosa, la Madre di tutte le cose, della terra, degli alberi, del cielo, di tutti gli uomini, e dello stesso Bevitore di Sangue, che viveva nel suo giardino.
Il mio interesse cresceva, ma cresceva anche la mia apprensione. Il culto della Grande Madre non mi era sconosciuto. La Madre Terra, Madre di Tutte le Cose, era adorata sotto una dozzina di nomi diversi da un’estremità dell’Impero all’altra, e così pure il suo amante e figlio, il Dio Morente, colui che diventava adulto con il crescere delle messi, e veniva abbattuto quando le messi erano falciate, mentre la Madre perdurava eterna. Era l’antico mito gentile delle stagioni. Ma, dovunque e in ogni tempo, le celebrazioni non erano gentili.
La Madre Divina era anche la Morte, la terra che inghiotte i resti del giovane amante e ci inghiotte tutti. E in consonanza con questa antica verità, antica quanto la semina, esistevano mille rituali sanguinosi.