«Che sarà di me?» domandai. Provavo l’impulso di strangolare Mael. Mi guardò e inarcò leggermente le sopracciglia.
«Se il dio è già morto…» sussurrò.
«Allora andremo a Roma, io e te, e ci ubriacheremo del buon vino italiano», dissi.
Era pomeriggio inoltrato quando il carro si fermò. Il chiasso si levava tutt’intorno a noi.
Quando guardai fuori, Mael non mi trattenne. Vidi che eravamo arrivati in un’immensa radura cinta da querce gigantesche. Tutti i carri, incluso il nostro, erano fermi tra gli alberi, e al centro della radura centinaia di uomini lavoravano con fasci di ramaglie, miglia di corda e centinaia di tronchi d’albero.
I tronchi più grossi e più lunghi che avessi mai visto venivano issati per formare due «X» gigantesche.
La foresta brulicava di gente; la radura non poteva contenerla tutta. Ma altri carri avanzavano nella calca per trovare posti ai margini degli alberi.
Finsi con me stesso di non sapere che cosa facevano là fuori; ma lo sapevo. E prima del tramonto udii le urla ancora più forti e disperate di coloro che stavano sui carri-prigione.
Era quasi l’imbrunire. E, quando Mael sollevò il telo perché vedessi, guardai inorridito due colossali figure di vimini, un uomo e una donna, a quanto sembrava dalla massa dei rampicanti che simulavano gli indumenti e i capelli. Erano costruiti di tronchi e corde, e riempiti da cima a fondo con i corpi dei condannati che urlavano e supplicavano. Guardavo ammutolito i due giganti mostruosi, e non osavo contare il numero degli umani che contenevano, le vittime chiuse nella cavità delle gambe enormi, nei busti, nelle braccia, persino nelle mani, nella testa immensa e priva di faccia, incoronata di rami d’edera e di fiori. Ghirlande di fiori formavano la veste della donna, e nella cintura d’edera dell’uomo erano infilati mannelli di grano. Le figure tremavano come se stessero per cadere da un momento all’altro; ma sapevo che le poderose impalcature le sostenevano. E intorno ai piedi dei simulacri erano ammucchiate le fascine e la legna resinosa che presto li avrebbero incendiati.
«E tutti coloro che devono morire sono colpevoli di qualche delitto? È questo che vuoi farmi credere?» chiesi a Mael.
Annuì con la consueta solennità. La cosa non lo interessava. «Hanno atteso mesi o addirittura anni il momento del sacrifìcio», rispose con indifferenza. «Vengono da ogni parte della nostra terra, e non possono cambiare il loro destino come noi non possiamo cambiare il nostro. Devono perire nelle forme della Grande Madre e del suo Amante.»
Ero sempre più disperato. Avrei dovuto tentare la fuga. Ma in quel momento una ventina di druidi circondavano il carro, e più oltre c’era una legione di guerrieri. E la folla si estendeva così lontana, fra gli alberi, che non vedevo dove finisse.
L’oscurità scendeva rapidamente, e dovunque venivano accese torce.
Sentivo il ruggito delle voci eccitate. Le urla dei condannati divennero ancora più penetranti e supplichevoli.
Rimasi immobile, cercando di liberare la mente dal panico. Se non potevo fuggire, dovevo affrontare quelle cerimonie con una certa calma; e, quando fosse apparso chiaro che erano una finzione, con dignità virtuosa avrei espresso il mio giudizio a voce abbastanza alta perché tutti mi sentissero. Sarebbe stato il mio ultimo atto, l’atto del dio, e dovevo compierlo con autorità; altrimenti non avrebbe contato nel disegno delle cose.
Il carro riprese a muoversi. C’era un chiasso tremendo; e Mael si alzò, mi prese il braccio e mi sostenne. Quando il telo venne sollevato, vidi che c’eravamo fermati nella foresta, a una certa distanza dalla radura. Mi voltai a guardare le immense figure e i movimenti patetici al loro interno, rischiarati dalle torce. Sembravano animati, quegli orrori, come se all’improvviso dovessero mettersi a camminare schiacciandoci tutti. Il gioco della luce e delle ombre su coloro che erano imprigionati nelle teste dei giganti dava una falsa impressione di facce orribili.
Non riuscivo a distogliermi da quella vista e dalla vista della folla tutt’intorno; Mael, però, mi strinse più forte il braccio e mi disse che dovevo recarmi al sacrario del dio, assieme al fiore dei sacerdoti.
Gli altri mi attorniarono con la palese intenzione di nascondermi. La folla, evidentemente, non sapeva cosa stava accadendo. Con ogni probabilità sapeva solo che presto sarebbero incominciati i sacrifìci e che i druidi avrebbero proclamato una manifestazione del dio.
Uno solo del gruppo aveva una torcia; e precedeva tutti noi nell’oscurità della sera. Mael era al mio fianco e le altre figure biancovestite camminavano davanti a me, e intorno e più indietro.
Tutto era immobile, e l’aria era umida. Gli alberi si ergevano ad altezze vertiginose contro gli ultimi bagliori del cielo lontano e sembravano ingigantire ancora mentre li guardavo.
Ora potrei fuggire, pensai, ma fin dove potrei arrivare prima che tutti si lancino all’inseguimento?
Eravamo arrivati a un macchione; e nella luce fioca delle fiamme scorsi i volti terribili scolpiti nelle cortecce degli alberi, e i teschi umani disposti a mucchi. Quel luogo era un carnaio, e il silenzio che ci circondava sembrava dar vita a quelle cose orribili e farle parlare.
Cercai di liberarmi dall’illusione che i teschi ci osservassero.
Non c’è nessuno che ci osserva, pensai, non esiste una coscienza continuativa.
Ma c’eravamo fermati davanti a una quercia nodosa così enorme che quasi dubitavo dei miei sensi. Quanto doveva essere vecchia per aver raggiunto una simile circonferenza? Non riuscivo a immaginarlo. Ma quando alzai gli occhi vidi che i rami erano ancora vivi e carichi di foglie verdi e decorati di vischio.
I druidi s’erano scostati, a destra e a sinistra. Solo Mael mi era rimasto accanto. Stavo davanti alla quercia, con lui alla mia destra, e vedevo che centinaia di mazzi di fiori erano stati deposti ai piedi dell’albero; le loro corolle quasi non mostravano i colori nell’addensarsi delle ombre.
Mael chinò la testa. Teneva gli occhi chiusi. Anche gli altri stavano nello stesso atteggiamento e tremavano. Sentivo la brezza agitare l’erba verde, udivo le fronde intorno a noi stormire in un lungo sospiro che si perdeva nella foresta.
E poi, molto chiaramente, sentii pronunciare nel buio parole prive di suono.
Giungevano innegabilmente dall’albero, e chiedevano se erano state rispettate tutte le condizioni relative a colui che quella notte avrebbe bevuto il Sangue Divino.
Per un momento credetti di stare impazzendo. Mi avevano drogato. Ma non avevo bevuto nulla dal mattino! Avevo la mente lucida, dolorosamente lucida, e sentivo di nuovo la pulsazione silenziosa che adesso chiedeva:
È un uomo dotto?
La figura snella di Mael parve baluginare mentre esprimeva la risposta. I volti degli altri erano estatici, gli occhi erano fissi sulla grande quercia e il palpito della torcia era l’unico movimento.
Può recarsi in Egitto?
Vidi Mael annuire. Le lacrime gli salirono agli occhi. Deglutì.
Sì, mio fedele, io vivo e parlo e tu hai agito bene. Creerò il nuovo dio. Mandalo da me.
Ero troppo sbalordito per parlare, e non avevo comunque nulla da dire. Tutto era cambiato. Tutto ciò in cui avevo creduto veniva posto in discussione. Non avevo paura, ma ero paralizzato dallo sbalordimento. Mael mi prese in braccio. Gli altri druidi vennero ad assisterlo. Mi condussero intorno alla quercia, a una certa distanza dai fiori ammucchiati tra le radici, fino a quando ci fermammo davanti a un enorme cumulo di pietre.
Anche da quella parte c’erano immagini scolpite e teschi, e le figure pallide di altri druidi che prima non avevo visto. Alcuni avevano lunghe barbe bianche. E furono costoro che avanzarono per incominciare a rimuovere le pietre.