Emanava suoni che nel mondo antico nessuno aveva mai udito, suoni così umani e così potenti e suggestivi che la gente considerava il violino una creazione del diavolo e accusava i migliori suonatori di essere invasati.
Ero un po’ stordito, confuso.
Come ero arrivato fin lì, e perché non ricordavo che la porta era sbarrata dall’interno? Forse di là a cinque secoli avrei potuto togliere la sbarra… ma non in quel momento.
Tuttavia continuai a scendere. I pensieri si disintegrarono con la stessa rapidità con cui erano affiorati. Mi sentivo di nuovo ardere e la sete mi torturava, sebbene questa non avesse nulla a che fare con ciò che provavo.
E quando superai l’ultimo angolo, vidi che la porta della cappella era spalancata. La luce delle lampade giungeva fino alla scala; e il profumo dell’incenso e dei fiori mi sopraffece all’improvviso e mi afferrò alla gola.
Mi avvicinai stringendo al petto il violino con entrambe le mani. E vidi che le ante del tabernacolo erano aperte, e loro erano là.
Qualcuno gli aveva portato altri fiori. Qualcuno aveva disposto pani d’incenso su piatti d’oro.
Entrai nella cappella, mi fermai a guardarli. E, come prima, mi sembrò che mi guardassero direttamente.
Erano bianchi, così bianchi che non riuscivo a immaginarli abbronzati, e sembravano duri come le gemme che li ornavano. Monili a forma di serpente intorno al braccio di Akasha. Una collana a più giri intorno alla gola.
Il viso della Madre era più sottile di quello del Padre, il naso un poco più lungo. Lui aveva gli occhi più allungati e le palpebre un po’ più spesse. I lunghi capelli neri erano quasi identici.
Respiravo un po’ a stento. Mi sentivo debole; lasciai che il profumo dei fiori e dell’incenso mi riempissero i polmoni.
La luce delle lampade danzava in mille riflessi d’oro sugli affreschi.
Guardai il violino, cercai di ricordare la mia idea, passai le dita sulla cassa di legno e mi chiesi come doveva apparire lo strumento ai loro occhi.
Spiegai a voce sommessa che cos’era, dissi che volevo farglielo ascoltare, e che in verità non sapevo suonarlo ma avrei tentato. Non parlavo abbastanza forte per sentire ciò che dicevo; ma sicuramente loro mi avrebbero udito, se lo volevano.
Mi portai il violino alla spalla, lo strinsi sotto il mento e alzai l’archetto. Chiusi gli occhi e ricordai la musica, la musica di Nicki, il modo in cui s’era mosso il suo corpo, e come le sue dita avevano esercitato la pressione per trasfondere il messaggio della sua anima.
Mi lanciai. La musica salì come un lamento, ondeggiò e ridiscese mentre le mie dita danzavano. Era un canto: potevo creare un canto. I toni erano puri e ricchi ed echeggiavano contro le pareti producendo la voce gemente e supplichevole che è tipica del violino. Continuai con abbandono, ondeggiando avanti e indietro, e dimenticai ogni cosa eccettuata la sensazione delle mie dita che battevano sulla tastiera e la consapevolezza che ero io a generare la musica, che fuorusciva da me e precipitava e ascendeva e traboccava sempre più forte mentre muovevo freneticamente l’archetto.
Cantavo con quella musica, mormoravo e cantavo, e tutto l’oro della cappella era un tremolio. Mi sembrò all’improvviso che la mia voce divenisse più forte, inesplicabilmente, con una nota alta e pura che, lo sapevo, io non ero in grado di produrre. Eppure c’era quella nota bellissima, costante e immutabile, e sempre più alta, tanto che mi feriva le orecchie. Suonai con slancio ancora maggiore, e udii i miei ansiti… e all’improvviso compresi che non ero io a produrre quella nota strana e altissima!
Mi sarebbe sgorgato il sangue dalle orecchie, se la nota non fosse cessata. E non ero io a produrla! Senza interrompere la musica, senza cedere alla sofferenza che mi spaccava il cranio, guardai davanti a me. Vidi che Akasha s’era alzata. I suoi occhi erano spalancati, la bocca era atteggiata in una «O» perfetta. Il suono veniva da lei: e scendeva i gradini del tabernacolo, veniva verso di me con le braccia tese, e la nota mi trapassava i timpani come una lama d’acciaio.
Non vidi più nulla. Sentii il violino urtare le pietre del pavimento. Sentii le mie mani premute contro le tempie. Urlai e urlai ma la nota assorbì il mio urlo.
«Basta! Basta!» gridai. Ma la luce era adesso riapparsa, e Akasha era davanti a me e tendeva le braccia.
«O Dio… Marius!» Mi voltai e corsi alla porta. E la porta si chiuse con violenza davanti a me, facendomi cadere in ginocchio. Singhiozzavo, mentre la nota continuava ininterrotta.
«Marius, Marius, Marius!»
E, quando mi voltai per capire cosa stava per accadami, vidi il piede di Akasha abbassarsi sul violino, che si schiantò sotto il suo calcagno. Ma la nota che lei cantava stava morendo. La nota si disperdeva.
E io rimasi in silenzio, assordato, incapace di udire le mie urla mentre invocavo Marius e mi rialzavo in piedi.
Un silenzio sonoro e tremulo. Lei stava davanti a me. Le sopracciglia nere si accostarono delicatamente, increspando appena la pelle bianca. Gli occhi erano pieni di tormento e di interrogativi. Le labbra rosapallide erano schiuse e rivelavano le zanne.
Aiutami, aiutami, Marius, aiutami, balbettavo, e non mi sentivo se non nella pura astrazione della mente. Poi le sue braccia mi cinsero. Mi attirò più vicino e io sentii la sua mano, come l’aveva descritta Marius, sostenermi la testa molto dolcemente. E sentii i miei denti contro la sua gola.
Non esitai. Non pensai alle braccia che mi stringevano e che avrebbero potuto stritolarmi in un secondo. Sentii le mie zanne penetrarle nella pelle come attraverso una crosta di ghiaccio, e il sangue mi fiottò nella bocca.
Oh, sì, sì… oh, sì. Le avevo passato il braccio sulla spalla sinistra. Stavo aggrappato a lei, alla mia statua vivente, e non aveva importanza che fosse più dura del marmo: doveva essere così, era perfetta… la mia Madre, la mia amante potentissima; e il sangue penetrava ogni particella palpitante del mio essere con i fili della sua rete ardente. Ora le sue labbra erano sulla mia gola. Mi baciava, baciava l’arteria attraverso la quale fluiva con violenza il suo sangue. Le sue labbra si aprirono e, mentre suggevo il sangue con tutte le mie forze e sentivo il fiotto diffondersi dentro di me, provai la sensazione inconfondibile delle zanne che mi affondavano nel collo.
Da ogni vena fremente il mio sangue passò in lei, come il suo sangue passava in me.
Vedevo quel circuito luminoso, e tanto più divinamente lo sentivo perché altro non esisteva che le nostre bocche, serrate l’una sulla gola dell’altro, e il pulsare incessante del sangue. Non c’erano sogni, non c’erano visioni, c’era soltanto questo, questo… meraviglioso e assordante e ardente… e nulla aveva importanza, assolutamente nulla, se non il desiderio che non finisse mai. Il mondo delle cose che avevano peso e occupavano spazio e interrompevano il flusso della luce non esisteva più.
Tuttavia era sopravvenuto un rumore orrendo, come il suono della pietra che si incrina, il suono della pietra trascinata sul pavimento. Marius che si avvicinava. No, Marius, non venire. Torna indietro. Non separarci.
Ma non era Marius, quel suono atroce, quell’improvviso sovvertimento di tutto, la cosa che mi afferrava per i capelli e mi strappava via, mentre il sangue mi sprizzava dalla bocca. Era Enkil. E le sue mani poderose mi serravano la testa.
Il sangue mi scorse sul mento. Intravvidi il viso sconvolto di Akasha. La guardai tendere le braccia verso di lui; gli occhi le sfolgoravano di collera, le sue membra bianche erano vigorose mentre afferrava le mani che mi tenevano la testa. Udii la sua voce levarsi e urlare, più forte della nota che aveva cantato, mentre il sangue le colava dagli angoli della bocca.
Quel suono aggrediva la vista, non soltanto l’udito. L’oscurità turbinò, si spezzò in un milione di minuscoli frammenti. Il mio cranio stava per schiantarsi.