Leggete tra le righe.
Lo tradii quando lo creai: questa è la cosa importante. Come tradii Claudia. E perdono le assurdità che ha scritto, perché ha detto la verità sulla strana felicità che lui e io e Claudia condividevamo e non avevamo il diritto di condividere in quei lunghi decenni del secolo deci-monono, quando i colori iridescenti del vecchio regime si estinsero e la musica incantevole di Mozart e Haydn lasciò il posto al fragore di Beethoven, che a volte riusciva a somigliare in modo straordinario al suono delle mie immaginarie Campane dell’Inferno.
Avevo ciò che volevo, ciò che avevo sempre voluto. Avevo loro. E ogni tanto potevo dimenticare Gabrielle e dimenticare Nicki e persino dimenticare Marius e il volto inespressivo di Akasha, e il tocco gelido della sua mano e il calore del suo sangue.
Ma avevo sempre voluto molte cose. Che cosa spiegava la durata della vita descritta da Louis in Intervista col Vampiro? Perché duravamo tanto a lungo?
Per tutto il secolo decimonono i vampiri vennero «scoperti» dai letterati europei. Lord Ruthven, la creazione del dottor Polidori, lasciò il posto a sir Francis Varney nelle riviste dell’orrore, e più tardi venne la magnifica, sensuale contessa Carmilla Karnstein, ideata da Sheridan Le Fanu, e infine il gorilla dei vampiri, l’irsuto e slavo conte Dracula, che, sebbene possa trasformarsi in pipistrello e smaterializzarsi a volontà, striscia sul muro del suo castello come una lucertola, apparentemente per divertirsi… e tutti questi personaggi immaginati alimentarono l’appetito insaziabile del pubblico per «i racconti gotici e fantastici».
Noi eravamo l’essenza di quella concezione ottocentesca… alteri e aristocratici, infallibilmente eleganti e invariabilmente spietati, legati tra noi in una terra che era matura per altri della nostra specie, ma ancora non ne era turbata.
Forse avevamo trovato il momento ideale nella storia, l’equilibrio perfetto tra il mostruoso e l’umano, il tempo in cui il fascino vampiresco, nato nella mia immaginazione fra i pittoreschi broccati dell’Ancien Regime, doveva trovare la sua più grande esaltazione nel fluente mantello nero, il cilindro nero, e i riccioli luminosi della bambina che traboccano dal nastro viola sulle maniche a sbuffo del diafano abito di seta.
Ma che cosa avevo fatto a Claudia? E quando avrei pagato questo? Per quanto tempo si accontentò d’essere il mistero che legava tanto strettamente me e Louis, la musa delle nostre ore al chiaro di luna, l’unico oggetto di devozione comune a entrambi?
Era inevitabile che lei, destinata a non avere mai forma di donna, colpisse il demone padre che la condannava ad avere il corpo d’una bambola di porcellana!
Avrei dovuto ascoltare il monito di Marius. Avrei dovuto fermarmi a riflettere, mentre stavo per compiere l’esperimento grandioso e inebriante: fare di una bimba una vampira. Avrei dovuto riflettere profondamente.
Ma, sapete, fu come suonare il violino per Akasha. Volevo farlo. Volevo vedere cosa sarebbe accaduto con una bambina così bella!
Oh, Lestat, meriti tutto ciò che ti è accaduto. È meglio che tu non muoia: potresti andare davvero all’inferno.
Ma perché, per ragioni puramente egoistiche, non ascoltai qualcuno dei consigli che mi erano stati dati? Perché non imparai nulla da loro… Gabrielle, Armand, Marius? Ma, del resto, non ho mai dato ascolto a nessuno. In un certo senso mi è impossibile.
E non posso dire, neppure ora, che vorrei non aver mai visto Claudia e non averla mai tenuta fra le braccia e non averle mai sussurrato segreti o udito la sua risata echeggiare nelle stanze rischiarate dai lumi a gas di quella casa troppo umana dove ci muovevamo tra i mobili laccati e gli scuri quadri a olio e i portavasi di bronzo, come devono fare gli esseri viventi. Claudia era la mia figlia tenebrosa, il mio amore, male del mio male. Claudia mi spezzò il cuore.
E in una notte dell’anno 1860 decise di saldarmi il conto. Mi attirò in una trappola e mi piantò più volte un coltello in corpo, dopo avermi drogato e avvelenato, fino a quando il mio sangue vampiresco sgorgò sin quasi all’ultima goccia prima che le mie ferite potessero risanarsi.
Non gliene serbo rancore. Era quel genere di cosa che forse avrei fatto anch’io.
E, quei momenti di delirio, non li dimenticherò mai, non li rinchiuderò in uno scompartimento inesplorato della mente. Furono la sua astuzia e la sua volontà a devastarmi, con la stessa sicurezza della lama che mi squarciò la gola e mi straziò il cuore. Penserò a quei momenti ogni notte finché continuerò a esistere, e penserò all’abisso che si spalancò sotto di me e quasi mi trascinò alla morte umana. Questo fu Claudia a darmelo.
Ma mentre il sangue defluiva e si portava via la capacità di vedere e udire e muovermi, i miei pensieri tornarono al passato lontano, molto più indietro della famiglia di vampiri nel paradiso di carta da parati e di tende di pizzo, fino ai boschi bui delle terre mitiche dove l’antico dio dionisano delle foreste aveva sentito più volte dilaniare la propria carne e spargersi il proprio sangue.
Se non esisteva un significato, esisteva almeno il lustro della congruenza, la sorprendente ripetizione dello stesso vecchio tema.
Il dio muore. E risorge. Ma questa volta nessuno viene redento.
Con il sangue di Akasha, aveva detto Marius, potrai sopravvivere a disastri che annienterebbero altri della nostra specie.
Più tardi, abbandonato nel silenzio e nel buio della palude, sentii la sete delineare le mie proporzioni, sentii la sete sospingermi, sentii le mie mascelle aprirsi nell’acqua fetida, le mie zanne cercare gli esseri a sangue caldo che mi avviarono sulla lunga strada del ritorno.
E tre notti più tardi, quando ero stato sconfitto di nuovo e i miei figli mi avevano abbandonato per sempre nell’inferno fiammeggiante della nostra casa, fu il sangue degli antichi, Magnus e Marius e Akasha, che mi sostenne mentre mi trascinavo lontano dall’incendio.
Ma senz’altro sangue risanatore, senza un’infusione fresca, restavo in balia del tempo perché rimarginasse le ferite.
E quel che Louis non poteva descrivere nel suo racconto è ciò che accadde dopo a me: per anni cacciai al margine del branco umano, ridotto a un mostro menomato e orrendo che poteva colpire soltanto i giovanissimi e gli infermi. In continuo pericolo di fronte alle mie vittime, divenni l’antitesi del demone appassionato e portai terrore anziché estasi, simile soprattutto ai vecchi revenants del Cimitero degli Innocenti, così laceri e sporchi.
Le ferite influivano sul mio spirito, sulla mia capacità di ragionare. E ciò che vedevo nello specchio ogni volta che osavo guardare consumava ancor più la mia anima.
Eppure, in tutto quel tempo non chiamai Marius e non cercai di colmare la distanza che ci separava. Non potevo invocare il suo sangue risanatore: era meglio soffrire per un secolo le pene del purgatorio anziché sentire la riprovazione di Marius. Meglio soffrire la peggiore solitudine, l’angoscia peggiore, anziché scoprire che conosceva tutto ciò che avevo fatto e da molto tempo mi aveva voltato le spalle.
In quanto a Gabrielle, che mi avrebbe perdonato qualunque cosa, e il cui sangue era almeno abbastanza potente per accelerare le guarigioni, non sapevo neppure dove cercarla.
Quando mi fui ripreso quanto bastava per affrontare il lungo viaggio fino all’Europa, mi rivolsi all’unico cui potevo rivolgermi: Armand. Armand, che viveva ancora sulla terra che gli avevo donato, nella torre dov’ero stato creato da Magnus, Armand che comandava ancora la prospera congrega del Teatro dei Vampiri nel Boulevard du Temple, il teatro ancora di mia proprietà. Dopotutto, non dovevo spiegazioni ad Armand. E lui non mi doveva qualcosa?