Ma che cosa avevo fatto? Avevo testimoniato contro di loro perché avevano violato le vecchie leggi? S’erano ribellati al signore della congrega. Che cosa sapevano, loro, delle vecchie leggi? Urlavo per chiamare Louis. E poi bevevo sangue nell’oscurità, sangue caldo di una vittima viva, e non era il sangue risanatore, era soltanto sangue.
Eravamo di nuovo in carrozza e pioveva. Stavamo viaggiando in campagna. Poi salimmo sul tetto della vecchia torre. Avevo tra le mani l’abito giallo di Claudia. L’avevo vista in un luogo stretto e umido dov’era stata bruciata dal sole. «Disperdete le ceneri!» avevo detto. Ma nessuno s’era mosso per farlo. L’abito giallo, strappato e insanguinato, era sul pavimento della cantina. Ora l’avevo tra le mani. «Disperderanno le ceneri, no?» domandai.
«Non volevi giustizia?» chiese Armand. Si stringeva nel mantello di lana nera per proteggersi dal vento e la sua faccia era scurita dalla potenza dell’uccisione recente.
Che cosa aveva a che fare con la giustizia? Perché tenevo fra le mani quell’abitino?
Guardai dagli spalti della torre di Magnus e vidi che la città mi era venuta incontro. Aveva proteso le lunghe braccia per cingere la torre e l’aria era ammorbata dal fumo delle fabbriche.
Armand era immobile alla balaustrata di pietra e mi osservava. All’improvviso mi sembrava giovane come lo era stata Claudia. E assicurati che abbiano vissuto un po’ prima di crearli, e non creare mai uno giovane come Armand. Morendo, Claudia non aveva detto nulla. Aveva guardato quelli intorno a lei come se fossero giganti che farneticavano in una lingua sconosciuta.
Armand aveva gli occhi rossi.
«Louis… dov’è?» chiesi. «Non l’hanno ucciso. L’ho visto. È uscito sotto la pioggia…»
«L’hanno inseguito», rispose Armand. «È già stato annientato.»
Un bugiardo dalla faccia di chierichetto.
«Fermali, devi fermarli! C’è ancora tempo…»
Scosse la testa.
«Perché non puoi fermarli? Perché hai voluto tutto questo, il processo, il resto; che cosa t’importa di ciò che mi avevano fatto?»
«È finita.»
Tra il ruggito dei venti giunse l’urlio di una sirena a vapore. Stavo perdendo la concatenazione dei pensieri. La perdevo… Non volevo tornare indietro. Louis, torna.
«E non hai intenzione di aiutarmi, vero?» Disperazione.
Armand si tese e il suo viso si trasformò com’era avvenuto molti, molti anni prima, come se la collera lo mutasse dall’interno.
«Tu che ci hai annientati tutti, tu che hai preso tutto. Cosa ti ha fatto pensare che ti avrei aiutato?» Si avvicinò. La faccia era contratta. «Tu che ci hai messi sui manifesti chiassosi nel Boulevard du Temple e ci hai fatto diventare i protagonisti di racconti mediocri e di chiacchiere da salotto!»
«Ma non sono stato io. Lo sai… Lo giuro… Non sono stato io!»
«Tu che hai trascinato i nostri segreti alla luce della ribalta… il marchese dai guanti bianchi, il demonio dal mantello di velluto!»
«Sei pazzo se attribuisci tutta la colpa a me. Non ne hai il diritto», insistetti. Ma la voce mi mancava al punto che stentavo io stesso a comprendere le mie parole.
E la sua voce dardeggiò come la lingua di un serpente.
«Avevamo il nostro Eden sotto quell’antico cimitero», sibilò. «Avevamo una fede e uno scopo. E fosti tu a scacciarci con una spada fiammeggiante. Che cosa abbiamo, adesso? Rispondi. Niente altro che l’amore dell’uno per l’altro e ciò che questo può significare per esseri come noi!»
«No, non è vero. Stava già accadendo. Non capisci nulla. Non hai mai capito nulla.»
Ma Armand non mi ascoltava. E non aveva importanza che mi ascoltasse o no. Si avvicinò. In un lampo scuro la sua mano scattò, la mia testa si piegò all’indietro, e vidi capovolti il cielo e la città di Parigi.
Precipitai nel vuoto.
Precipitai e precipitai, davanti alle finestre della torre, fino a che il marciapiede di pietra salì per catturarmi, e ogni osso del mio corpo si fratturò entro l’involucro sottile di pelle preternaturale.
2.
Passarono due anni prima che fossi abbastanza forte per imbarcarmi per la Louisiana. Ero ancora invalido e sfregiato. Ma dovevo lasciare l’Europa, dove non mi era giunto neppure un sussurro della mia perduta Gabrielle o del grande e potente Marius, che sicuramente mi aveva giudicato.
Dovevo tornare a casa. E per me questa era New Orleans, dove i fiori non avevano mai smesso di fiorire, dove era caldo e dove, grazie alla mia inesauribile riserva di «denaro del reame», possedevo una dozzina di vecchie case vuote con colonne bianche fatiscenti e portici cadenti dove potevo aggirarmi.
Trascorsi gli ultimi anni dell’Ottocento in isolamento completo nel vecchio Garden District, a un isolato dal Cimitero Lafayette, nella più bella delle mie case, a dormire sotto le querce altissime.
Leggevo al lume delle candele o delle lampade a petrolio tutti i libri che riuscivo a procurarmi. Ero come Gabrielle prigioniera nella sua camera da letto al castello; ma io non avevo mobili. I mucchi di libri arrivavano al soffitto in una stanza dopo l’altra, e così mi spostavo. Ogni tanto trovavo abbastanza forza per fare irruzione in una biblioteca o in una vecchia libreria in cerca di volumi nuovi, ma uscivo sempre meno spesso. Ordinavo i periodici per posta. Facevo scorte di candele e bottiglie e latte di petrolio.
Non ricordo quando venne il secolo ventesimo; ricordo solo che tutto divenne più tetro e sgradevole, e la bellezza che avevo conosciuto nel secolo decimottavo sembrava più che mai una fantasia. I borghesi governavano il mondo in base a princìpi noiosi e diffidavano della sensualità e degli eccessi tanto amati dall’Ancien Regime.
Ma la mia vista e i miei pensieri si annebbiavano sempre di più. Non andavo più a caccia di umani. E un vampiro non può prosperare senza sangue umano e morti umane. Sopravvivevo attirando gli animali domestici del vicinato, i cani e i gatti. E quando non era facile procurarmeli, c’erano sempre i grassi ratti grigi che potevo chiamare a me come il Pifferaio Magico.
Una notte mi imposi di compiere il lungo tragitto, attraverso le strade tranquille, fino a un piccolo, modesto teatro chiamato Happy Hour, vicino alle catapecchie del porto. Volevo vedere il nuovo cinema muto. Ero infagottato in un cappotto con una sciarpa che mi nascondeva la faccia scarna. Portavo i guanti per nascondere le mani scheletrite. La vista del cielo di giorno, in quel film imperfetto, mi terrorizzò. Ma mi sembrava che i toni squallidi del bianco e nero fossero adatti per un’epoca incolore.
Non pensavo agli altri immortali. Ogni tanto, tuttavia, appariva un vampiro… un novizio orfano capitato per caso nel mio covo, oppure un vagabondo venuto in cerca del leggendario Lestat per chiedergli segreti e potere. Erano intrusioni orride.
Persino il timbro delle voci sovrannaturali mi spezzava i nervi, mi costringeva a rifugiarmi in un angolo. Tuttavia, per quanto la sofferenza fosse grande, scrutavo ogni mente per cercare qualche notizia della mia Gabrielle. Non ne scoprii mai. E dopo non mi restava nulla da fare se non ignorare le povere vittime umane che il mostro mi portava nella vana speranza di risanarmi.
Ben presto, comunque, quegli incontri finivano. Spaventato, irritato, l’intruso se ne andava bestemmiando e mi lasciava al benedetto silenzio.
Giacevo nel buio e mi allontanavo un poco di più dalla realtà.
Non leggevo più molto. E, quando lo facevo, leggevo la rivista Black Mask, le storie degli odiosi uomini nichilisti del secolo ventesimo, i corrotti vestiti di grigio, i rapinatori di banche, gli investigatori e cercavo di ricordare. Ma ero così debole. Così stanco.
E poi una sera venne Armand.
In un primo momento pensai che fosse un’illusione. Stava immobile nel salotto rovinato, e sembrava più giovane che mai, con i capelli fulvi tagliati a caschetto secondo la moda del ventesimo secolo e l’abito scuro.