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Con la stessa vocina che aveva perso la battaglia sulla lettera di Rudy, che ora la supplicava di aspettare fino all’incontro con il capo della polizia, Ellen uscì dal parcheggio e si diresse verso Tullis e Deep Woods Road.

La strada, terra battuta e sassolini spianati, saliva dolcemente attraverso un arco continuo di denso fogliame. Era larga quanto una macchina, con un basso canale di scolo a entrambi i lati e spiazzi dove fermarsi per far passare una vettura che stesse venendo incontro. Prima di una curva c’era una serie di cassette per la posta. Una di esse recava il numero 100 e il nome SUTCHER. Ellen avanzò lentamente, provando uno strano, quasi perverso piacere nel compiere un’azione che sapeva essere potenzialmente pericolosa. Malgrado le cassette per la posta, non vide alcuna casa. Da entrambi i lati partivano invece vialetti in terra battuta che s’insinuavano nel bosco, la maggior parte con un’asse inchiodata a un albero che indicava il numero della casa.

62… 70… 83…

Ellen rallentò ancora di più. Numerosi vialetti erano privi di numero. Che uno di quelli fosse quello di Sutcher?

90…

Con il cuore in gola, Ellen si fermò e, facendo manovra in una delle stradine senza numero, girò l’auto. Poi aprì cautamente la portiera.

Stai facendo una cosa stupida, stava dicendo la vocina. Una cosa assolutamente sciocca.

Infilò le chiavi nella tasca dei pantaloni, chiuse delicatamente la portiera e si avviò su per la strada stretta.

100.

Il numero, dipinto in nero su un’asse di legno di pino, era inchiodato ad altezza d’occhi sul tronco di una piccola betulla. Subito dietro la betulla, il bosco si diradava, lasciando il posto a una radura, dietro la quale vi era un paesaggio spettacolare, una larga valle solcata da fiumi, che si stendeva verso colline lussureggianti e montagne grigio-blu. Al centro della radura vi era una casa nuova, o vecchia restaurata a fondo da poco, a un piano, moderna, con grandi finestre panoramiche e pareti esterne in legno di cedro chiazzato di mogano. Sparsi in giro, notò i resti della costruzione. Il prato non era stato ancora sistemato, anche se la tubazione di un impianto di irrigazione sotterraneo era lì, pronta per essere installata. Non vi era garage, ma una parte del futuro prato era stata ricoperta di ghiaia e forniva spazio per due automobili.

Benché certa che la proprietà fosse al momento vuota, Ellen la osservò per almeno cinque minuti, nascosta e protetta nel bosco. Nessun movimento.

Ansiosa di dare una sbirciatina all’interno, uscì dall’ombra e si diresse verso la casa, il polso che batteva rapidamente. Sebbene la casa non fosse ancora completata, di certo qualcuno l’abitava. Attraverso le finestre vide che era ammobiliata in uno stile decisamente maschile, divani e poltrone in pelle, pesanti tavoli spogli. Incoraggiata dal silenzio, Ellen premette il viso contro il vetro e sbirciò all’interno: sopra la mensola un’enorme testa di alce e numerosi fucili e pistole agganciati alla parete. Scrutò l’interno, alla ricerca di fotografie. Niente. Una finestra alla volta, arrivò al fianco della casa.

Il panorama era magnifico, reso ancora più bello dal sole che stava calando verso le montagne. La casa, pur non essendo costruita su uno strapiombo, era situata in cima a un pendio scosceso. Ellen fece un passo verso il bordo. La scarpata era più che altro terra, erbacce e pietre, ingombra di assi, cinghie e pezzi di cemento da portare via quando quel posto fosse stato sistemato. In quel momento si rese conto che la casa non aveva un solo piano come pareva dalla strada, ma due e forse addirittura tre scavati nel fianco della collina. Fece qualche passo esitante lungo il pendio e rimase a bocca aperta. Vi erano due piani abitabili, quello che aveva esaminato lei e un altro sottostante. Ciascuno presentava un solido muro in vetro sfumato che si stendeva per tutta la lunghezza della casa. Il piano sottostante era un garage, costruito anch’esso nel fianco della collina, da cui partiva uno stretto vialetto che curvava seccamente a destra, per poi dirigersi verso un punto non molto distante da dove lei aveva parcheggiato.

Nel garage vi era una grande Jeep nera quattro per quattro.

A quella vista, Ellen sentì stringersi il petto.

«Allora, che succede qui?»

La tonante voce di Vinyl Sutcher fu come una lancia nel cuore di Ellen. Spaventata, roteò su se stessa, inciampò e cadde su un ginocchio, finendo su un pezzo di cemento puntuto. Balzò in piedi, incurante del dolore, dello strappo nei pantaloni e della macchia di sangue che vi si stava rapidamente spandendo intorno. Sutcher era sopra di lei, a sei metri circa di distanza, le mani sui fianchi, un ghigno sulla sua enorme faccia piatta.

«Sapevo che era lei», esclamò Ellen sprezzante.

«Venga su… ho detto, VENGA SU, PORCA PUTTANA!»

Ellen esitò, poi lentamente ubbidì. Aveva fatto un terribile, tremendo sbaglio e ora ne avrebbe pagato le conseguenze con il dolore e poi, presto o tardi, con la vita. Se il pendio dietro di lei fosse stato solo un po’ più ripido, avrebbe potuto farla finita rapidamente o tentare almeno di trascinare anche lui giù con lei. Così invece, il vialetto in basso avrebbe frenato qualsiasi caduta. Non poteva fare altro che starsene lì a fissarlo.

«Come ha trovato questo posto?» domandò lui.

«Non è terribile rendersi conto di non essere furbi come si credeva?» ribatté lei, non solo a lui, ma anche a se stessa.

Sutcher indossava jeans neri, una camicia nera a maniche corte e stivali neri e fissava Ellen con tutta la cattiveria possibile. I suoi stretti occhi da roditore la guardavano con ira.

«Le ho fatto una domanda», ringhiò.

Colmò gli ultimi tre metri che li separavano, afferrò il polso di Ellen e, con l’altra mano, le piegò le nocche all’indietro finché lei non cadde sulle ginocchia, gridando dal dolore.

«So chi è lei e so cosa ha fatto», riuscì a dire.

Sutcher la tirò in piedi, ma non mollò la mano.

«Di che sta parlando?»

«Le piace tanto fare del male a signore vecchie abbastanza da poter essere sua madre?»

«Mi piace fare del male a chiunque. Allora, glielo chiederò ancora una volta, prima di iniziare a farle del male per davvero. Come ha fatto a trovarmi?»

Ellen visualizzò la nipotina, addormentata nella sua camera da letto mentre quel mostro la fotografava.

«Mi sono messa sottovento e ho annusato», rispose. «Poi ho seguito l’odore ed eccomi qui.»

Senza esitare, Sutcher la colpì, uno schiaffo a mano aperta che la fece girare su se stessa e rotolare giù per il pendio come una bambola di pezza. Contusa e sanguinante, si fermò a metà strada del vialetto, sulla pancia, le braccia e le gambe divaricate, la guancia tagliata schiacciata contro un pezzo di cemento. Era desta e vigile, ma tanto dolorante che, per qualche strano motivo, non sentiva affatto male. Rimase immobile, gli occhi chiusi. Che sarebbe successo ora? Dall’alto, mentre Sutcher discendeva il pendio verso di lei, poté sentire i suoi grugniti e l’acciottolio delle pietre.

Socchiuse gli occhi. Sotto la mano destra vi era una sottile stecca di legno, lunga una novantina di centimetri, dalla cui estremità sporgeva un chiodo, lungo cinque centimetri, forse anche sei. Avrebbe perso contro quel mostro, era un dato di fatto, ma non senza avere tentato di fargli prima del male. Muovendo solo le dita, le serrò attorno al legno. La sua unica possibilità, se ve ne era una, era quella di colpirlo al volto e sperare di prendere un occhio. Il suo odio per quell’uomo era tale che l’idea di accecarlo non la ripugnò.

Il suo respiro affaticato si stava avvicinando. Pensò di averlo sentito incespicare almeno una volta. Bene!… Era qui ora, vicino a lei, e la urtava con la punta dello stivale. Se avesse notato la mano stretta attorno all’asticella e le avesse messo un piede sul polso, la sua unica opportunità per fargli del male sarebbe svanita. Lui sembrava però intento solo a determinare se era viva o no. Per complicargli le cose, trattenne il fiato.