Era chiaro che Don Tameo aveva avuto le migliori intenzioni di restare sobrio fino all’ora di cena, ma sfortunatamente non gli era riuscito.
«Ma mio caro!» disse Don Rumata. «Da quando in qua citiamo i versi del sovversivo Zuren?»
Don Ripat si irrigidì, fulminando Don Tameo con gli occhi felini.
«Eh, eh…» biascicò confuso Don Tameo. «Zuren? Sì, infatti, e perché lo sto citando? Sì, sì, per così dire… con intenzione sarcastica, vi assicuro, signori! Sì, chi è questo Zuren? Soltanto un demagogo ingrato. Volevo solo far notare…»
«Che Donna Okana non è ancora arrivata» l’interruppe Rumata «e che siete stato costretto a bere senza la sua compagnia».
«Proprio così».
«A proposito, dov’è?»
«Dovrebbe essere qui da un momento all’altro» rispose Don Ripat, che si allontanò con un inchino.
Le confidenti della padrona di casa continuavano a guardare la piuma bianca a bocca aperta. I vecchi damerini sorridevano malignamente. Infine anche Don Tameo si accorse della piuma, e cominciò a tremare.
«Amico mio!» sussurrò. «Cosa significa? Se Don Reba dovesse vederla… Anche se non lo aspettiamo per stasera, ma non si può mai essere sicuri…»
«Andiamo, smettetela» disse Rumata percorrendo la stanza con uno sguardo impaziente. Voleva arrivare in fondo il più presto possibile.
Gli ufficiali della guardia si avvicinarono con dei bicchieri di vino in mano.
«Com’è pallido!» mormorò Don Tameo. «Capisco, questa è la passione… Ma, per san Michele, lo Stato dovrebbe venire prima di tutto! E poi è pericoloso, pericolosissimo… Un insulto ai sentimenti di Don Reba…»
Nella sua espressione cambiò qualcosa mentre cominciava a indietreggiare inquieto, uscendo dalla stanza, continuando a inchinarsi. Gli ufficiali della guardia circondarono Rumata. Qualcuno gli porse un calice di vino.
«Brindiamo all’onore e a Sua Maestà il Re!» gridò uno degli ufficiali.
«E all’amore!» aggiunse un altro.
«Mostratele di cosa è capace la guardia, signore!» Rumata prese il calice e improvvisamente vide Donna Okana. In piedi sulla soglia, agitava il ventaglio elegante muovendo le spalle, con il viso atteggiato in un’espressione languida. Era molto graziosa. Da quella distanza poteva anche sembrare bella.
Disgraziatamente non era l’ideale di Rumata ma era pur sempre carina, quella giumenta stupida e sensuale. Grandi occhi azzurri senza una scintilla d’intelligenza o di calore, una bocca morbida ed esperta, un corpo voluttuoso le cui forme erano svelate con abilità e grande cura.
Un ufficiale della guardia dietro Rumata sembrò non riuscire a controllarsi più e schioccò le labbra sonoramente. Senza voltarsi, Rumata diede il calice a qualcuno, andando a grandi passi verso Donna Okana. Tutti i presenti distolsero gli occhi, cominciando a discutere di cose futili.
«La sua bellezza è accecante» mormorò Rumata, inchinandosi e facendo tintinnare le spade. «Mi permetta di giacere ai suoi piedi come un levriero ai piedi di una bella donna indifferente».
Donna Okana nascose il viso dietro il ventaglio, sorridendo civettuola.
«Lei è molto audace, signore. Noi povere provinciali siamo incapaci di resistere a simili tempeste…» Aveva una voce profonda e stridula, che qualche volta le veniva meno. «Ahimè, non posso fare altro che aprire i cancelli della fortezza e far entrare il vincitore…»
Stringendo i denti per la rabbia e la vergogna, Rumata si inchinò ancora più profondamente. La donna abbassò il ventaglio e disse ad alta voce: «Nobili signori!
Andate a divertirvi! Tornerò presto con Don Rumata. Ho promesso di mostrargli i miei nuovi tappeti irukani».
«Non ci privi troppo a lungo della sua presenza, bellezza ammaliante!» belò uno dei vecchi gentiluomini.
«Che donna magnifica!» esclamò un altro, aggiungendo, con tono nauseante: «La regina delle fate!»
Gli ufficiali della guardia fecero tintinnare le sciabole. «Devo ammettere che ha un certo buon gusto» commentò il personaggio di sangue reale.
Donna Okana prese Rumata per la manica e se lo tirò dietro. In corridoio, lui sentì Don Sera dichiarare, offeso: «Non vedo perché un gentiluomo non possa andare a vedere dei tappeti irukani…»
In fondo al corridoio, Donna Okana si fermò improvvisamente, gli cinse il collo, e con un gemito che indicava un’esplosione di passione incontenibile lo baciò sulla bocca con violenza, attaccandosi alle sue labbra e risucchiandole come una sanguisuga. Rumata trattenne il respiro. Il corpo della donna emanava un odore pungente di profumo irukano misto a quello della pelle sporca. Le sue labbra erano bollenti, umide e appiccicose di canditi. Coraggiosamente, cercò di scacciare la nausea e di ricambiare il bacio, e in apparenza ci riuscì, perché Donna Okana mugolò di nuovo e si abbandonò al suo abbraccio con gli occhi chiusi.
Gli sembrò un’eternità. «Adesso avrai quello che cerchi, bestia» pensò Rumata, e la strinse forte. Si sentì uno scricchiolio: il busto, o forse una costola.
La bella gemette, aprì stupefatta gli occhi e si divincolò debolmente, cercando di sottrarsi alla sua presa. Rumata la lasciò subito andare.
«Che amante temerario!» disse lei ansimando, accecata dal desiderio. «Mi hai quasi spezzato in due!»
«Brucio di desiderio» mormorò lui.
«Anch’io. Quanto ti ho aspettato! Andiamo, presto!»
Tenendolo per mano, gli fece attraversare delle stanze gelate. Rumata prese il fazzoletto e si pulì le labbra di nascosto. Tutta quella faccenda ora sembrava senza senso. «Ma devo farlo» pensò. «Che cosa ci tocca sopportare, qui. Non tutto si può risolvere con le parole. Per san Michele, perché non si lavano mai, a corte? E oltre alla puzza, questo temperamento così passionale…» Se Don Reba li avesse sorpresi… La donna lo tirava senza parlare, con la forza di una formica che trascina larve morte. Rumata si sentiva idiota e continuava a sussurrare sciocchezze sui suoi «piedini veloci» e le sue «labbra rosse come una rosa».
Lei continuava a gongolare.
Lo fece entrare in tutta fretta in un boudoir surriscaldato alle cui pareti erano effettivamente appesi grandi tappeti. Donna Okana si lasciò cadere sul letto enorme e lo guardò con occhi umidi e brillanti. Rumata si irrigidì. Nel boudoir c’era un’inconfondibile puzza di cimici. «Sei così bello!» mormorò lei. «Vieni più vicino, vieni da me. Ti ho aspettato tanto!»
Rumata distolse gli occhi. Era nauseato. Il sudore gli colava dalla fronte. «Non ci riesco» gli balenò in mente. «Al diavolo le informazioni che potrei strapparle… Che animale, che caricatura… È innaturale, sporco, va contro la mia coscienza. Certo, meglio la sporcizia del sangue, ma questo è molto peggio della sporcizia».
«Cosa aspetti?» ansimò Donna Okana. «Oh, amore, vieni, ti sto aspettando!»
«Oh, all’inferno!» sibilò Rumata d’impulso. Lei scese dal letto e corse verso di lui.
«Che ti prende? Sei ubriaco?»
«Non lo so». Si sforzava di pronunciare le parole. «Qui dentro fa troppo caldo».
«Ti farò portare un calice».
«Di cosa?»
«Oh, lascia perdere… Passerà…» Le dita le tremavano per l’impazienza, mentre cominciava a sbottonargli la giacca. «Sei veramente stupendo…» sussurrava con un filo di voce. «Ma sei così timido, come una verginella. Da te non me lo sarei mai aspettato… Ma è così eccitante, per San Bara!…»
Volente o nolente, non poteva più temporeggiare: doveva prenderla per la mano.
L’osservò bene e vide i suoi capelli sporchi e laccati, le spalle nude e tonde punteggiate di cipria e gli orecchi rosati. «È disgustoso» pensò. «Non posso farci niente. Peccato, però, perché sa alcune cose… Don Reba parla nel sonno… La porta con sé ai colloqui, e lei adora gli interrogatori… No, non ce la faccio…» «Allora?» sbottò lei irritata.