«Mio Re!» Rumata parlava a voce alta e chiara, e aveva l’impressione che tutto il palazzo fosse paralizzato dall’orrore. «Dovete solo ordinarlo, e il miglior medico del regno sarà qui entro un’ora!»
Il Re lo guardò perplesso. Il rischio era terribile. A Don Reba sarebbe bastato battere ciglio… Rumata sentiva con tutto il corpo quanti occhi lo stavano fissando, pronti ad attaccarlo in qualunque momento. Conosceva anche lo scopo delle file di buchi rotondi appena visibili sotto il soffitto della camera da letto. Don Reba lo guardò con un’espressione gentile e di benevola curiosità.
«Che significa?» chiese diffidente il Re. «Bene, allora, ve lo ordino: dov’è il vostro guaritore?»
Rumata cominciò a irrigidirsi. Sentiva quasi le punte delle frecce nella schiena.
«Sua Maestà» disse velocemente. «Vi prego, ordinate a Don Reba di chiamare il famoso dottor Budach».
Incredibile! Aveva detto la cosa più importante ed era ancora vivo! Don Reba aveva ancora qualche dubbio sulla sua posizione in quell’affare? Il Re guardò stancamente il suo ministro della Sicurezza Interna.
«Sua Maestà» continuò Rumata, ora senza fretta e con tono deciso. «Avendo saputo delle sue insopportabili sofferenze, e conscio dei doveri della mia famiglia verso la Casa reale, avevo convocato qui da Irukan il famosissimo dottor Budach.
Disgraziatamente il viaggio del dottore è stato interrotto. I soldati del nostro onorevole Don Reba lo hanno catturato la settimana scorsa, e da allora solo Don Reba conosce il suo destino. Presumo che il medico sia nelle vicinanze, probabilmente nella Torre della Gioia. Posso solo sperare che l’odio particolare che Don Reba nutre per i medici non abbia ancora avuto un effetto irreversibile sull’incolumità del dottor Budach».
Rumata tacque, trattenendo il respiro. In apparenza, tutto stava filando liscio.
Guardò brevemente in direzione di Don Reba e si sentì raggelare. Il ministro della Sicurezza Interna si controllava benissimo. Fece un cenno a Rumata, un rimprovero tenero e paterno. Era l’ultima cosa che si aspettava da lui. «Sembra trionfante» pensò, confuso.
Il Re, d’altro canto, si comportava come previsto. «Ribaldo!» gridò. «Ti torcerò il collo! Dov’è il dottore? Dov’è il dottore, ti dico!»
Reba fece un passo avanti, sorridendo.
«Sua Maestà, lei è davvero un monarca fortunato, perché ha sudditi tanto devoti da interferire a volte l’uno con l’altro nel desiderio di servirvi». Il Re lo fissava con occhi vuoti, senza capire. «Non vi nascondo che conoscevo bene le nobili intenzioni del nostro zelante Don Rumata, come del resto tutti nel vostro regno. Non vi nascondo che ho mandato i nostri soldati Grigi a incontrare il dottor Budach al solo scopo di proteggerlo dai pericoli di un lungo viaggio. Né intendo nascondere che non avevo fretta di portare Budach, l’irukano, davanti a Sua Maestà…»
«Come osa?»
«Sua Maestà, Don Rumata è giovane e tanto abile nella nobile arte del duello quanto inesperto di politica. Perciò è del tutto ignaro, naturalmente, di che cosa sia capace il Duca di Irukan nella sua malvagità e nel suo odio contro Sua Maestà. Ma lei e io, noi due, naturalmente lo sappiamo, vero?» Il Re fece un cenno di assenso. «E per questo mi è sembrato consigliabile condurre qualche ricerca, solo in via precauzionale. Non avrei voluto far precipitare le cose, ma se lei, mio Re (inchino profondo), e lei, Don Rumata (un cenno impercettibile), insistete tanto, farò venire il dottor Budach oggi stesso, dopo pranzo, così che possa iniziare la cura».
«Non siete poi così stupido, Don Reba» disse il Re dopo aver riflettuto brevemente sulle parole del ministro. «Ricerche… Buona idea… Male non fa. Maledetto irukano…» Improvvisamente urlò di dolore e si toccò di nuovo le ginocchia. «Oh, maledetta gamba! Bene, allora subito dopo il pranzo? Dovrò aspettare, allora…
Aspettare».
Appoggiandosi al maestro di cerimonia il Re andò lentamente nella sala del trono, passando davanti a Rumata, completamente disorientato. Don Reba, prima di fendere la folla dei cortigiani che si era fatta da parte per lasciarlo passare, gli sorrise affabilmente e gli chiese: «È vero, Don Rumata, che stanotte sarà lei di guardia nella camera da letto del Principe? Sono stato bene informato, vero?»
Rumata s’inchinò silenziosamente.
Rumata vagava senza meta negli interminabili corridoi e nei passaggi del palazzo.
Erano bui e umidi, e c’era puzza di ammoniaca e putrefazione. Passò davanti a saloni magnifici decorati con ricchi tappeti e arazzi, a sgabuzzini pieni di roba vecchia e mobili dalle dorature scrostate. Lì dentro era difficile incontrare qualcuno. Capitava che qualche cortigiano si perdesse e si aggirasse in quel labirinto, nelle ali retrostanti del palazzo, dove gli appartamenti reali si fondevano gradualmente con gli uffici del ministero della Sicurezza Interna. Era facile perdersi.
Tutti ricordavano di quando una pattuglia della guardia, durante una ronda, era stata terrorizzata dalle urla di un uomo che stendeva le mani graffiate attraverso la finestra sbarrata di una feritoia. «Salvatemi!» urlava. «Sono un gentiluomo della corte! Non so come fare a uscire, sono due giorni che non mangio! Tiratemi fuori di qui!» Per dieci giorni vi era stato un animato scambio di lettere tra il Tesoriere e il Ciambellano, e alla fine avevano deciso di schiodare le sbarre della finestra. Intanto, il povero gentiluomo era sopravvissuto grazie al pane e alla carne che gli passavano sulla punta di una lancia. Inoltre in quei passaggi si potevano incontrare altri pericoli.
Soldati ubriachi, truppe di palazzo che avevano il compito di difendere il Re, e Sturmovik ubriachi incaricati di proteggere il ministero, si scontravano in quegli stretti corridoi e ingaggiavano battaglie. Quando avevano finito di battersi si separavano e portavano via i feriti. E, infine, era lì che vagavano i fantasmi degli assassinati. Una folla considerevole di anime si era accumulata nel palazzo nel corso degli ultimi due secoli.
Da una nicchia del muro vide uscire uno Sturmovik di guardia. Il soldato Grigio alzò l’ascia e disse cupamente: «Vietato entrare».
«Non capisci niente, stupido!» disse Rumata, spingendolo da parte.
Mentre si allontanava sentiva lo Sturmovik che sfregava gli stivali sul pavimento e pestava i piedi, incapace di decidere come reagire all’insulto. Rumata si scoprì a pensare che quel tono offensivo e quei gesti indolenti erano diventati per lui quasi una seconda natura: non faceva più soltanto finta di essere un parassita di alto lignaggio, quell’atteggiamento era diventato come una specie di riflesso automatico.
Immaginò l’effetto di un tale comportamento sulla Terra e fu sopraffatto da un senso di nausea e di vergogna. «Perché lo faccio? Cosa è cambiato in me? Dove sono andati a finire il rispetto e la cordialità verso i miei simili che mi erano abituali fin da bambino? Che relazioni ho sviluppato con gli altri esseri umani, con quella meravigliosa creatura che si chiama uomo? Ormai devo essere irrecuperabile…» Un pensiero orribile gli attraversò la mente: «Io li odio e li disprezzo. Non sento pietà per loro… No, li odio e li disprezzo davvero. Anche se considero l’ottusità, la bestialità di quella montagna di carne, le circostanze sociali e la sua tremenda educazione… Posso sforzarmi il più possibile, ma ora vedo chiaramente che questo è il mio nemico, ostile a tutto quello che mi è caro, il nemico dei miei amici, il nemico di tutto quello che ho di più sacro. E non lo odio astrattamente, come rappresentante di qualcosa, ma proprio come individuo. Odio la sua bocca ripugnante e bavosa, la puzza del suo corpo sudicio, la sua fede cieca, la sua indifferenza a tutto quello che non è il bisogno sessuale o la birra. Eccolo là, l’adolescente a cui quel panzone di suo padre lisciava il pelo per insegnargli a diventare mercante di farina avariata e marmellata ammuffita.