Eccolo là che geme, lo stupido, che si sforza di ricordare i paragrafi giusti delle regole che gli hanno ficcato in testa e non sa se usare la sua accetta contro il nobile o fargli ciao con la manina. Qualunque cosa decida, nessuno lo saprà mai. Allontana da sé tutto quello che gli crea dei problemi, ritorna nella sua nicchia nel muro, si mette in bocca un pezzo di scorza da masticare, si lecca le labbra e rumina come una vacca soddisfatta, sbavando come un neonato. E niente altro gli interessa. Non userà il suo cervello per niente al mondo. Che Dio lo aiuti! Ma la nostra Aquila Illuminata, Don Reba, è migliore di lui? Certo, la sua psiche è più complessa, i suoi riflessi più imprevedibili, ma i suoi pensieri somigliano a quelli di quest’individuo puzzolente di ammoniaca e a questi labirinti pieni di delitti, ed è indescrivibilmente vile, un criminale orrendo, un ragno privo di scrupoli. Sono venuto su questo pianeta per amare questa gente, per assisterla nel suo sforzo di svilupparsi, per dar loro la possibilità di vedere la luce. No, ho fallito. Come storico sono un fallimento. E quando sono caduto in quest’abisso di cui parlava Don Kondor? Un dio può avere altri sentimenti oltre alla pietà?» Dietro di sé, nel corridoio, sentì un trepestio. Si voltò e afferrò tutte e due le spade.
Don Ripat correva verso di lui, brandendo la sua. «Don Rumata, Don Rumata»
diceva da lontano, cercando di non urlare.
Rumata lasciò andare l’elsa. Ora Don Ripat era abbastanza vicino; si guardò cautamente intorno e poi gli sussurrò all’orecchio: «È quasi un’ora che la sto cercando! Waga Koleso è nel palazzo! Sta parlando con Don Reba nella stanza lilla».
Rumata socchiuse gli occhi per un momento. Poi si fece di lato, dicendo sorpreso: «Non starà parlando del famoso capobanda? Credevo che fosse stato giustiziato tempo fa, o che esistesse solo nell’immaginazione popolare».
L’ufficiale si leccò le labbra screpolate.
«Esiste, esiste… È qui a palazzo… Pensavo che la cosa potesse interessarle».
«Mio caro Don Ripat» disse enfaticamente Rumata. «Le voci mi interessano sempre. I pettegolezzi. Gli aneddoti. La vita è così noiosa… Dovete avermi frainteso».
L’altro lo guardò perplesso. Rumata continuò: «Rifletta, perché dovrei farmi coinvolgere nelle trame e nelle relazioni vischiose di Don Reba? Non dimentichi quanto apprezzo Don Reba come persona, non potrei mai condannare o criticare le sue azioni. Adesso mi scusi, vado di fretta. Una dama mi sta aspettando».
Don Ripat si leccò di nuovo le labbra, s’inchinò goffamente e si fece da parte.
Improvvisamente, Rumata ebbe un’ispirazione.
«A proposito, amico mio» disse gentilmente «le è piaciuto il tiro che abbiamo giocato a Don Reba stamattina?»
Don Ripat si fermò volentieri. «Siamo molto soddisfatti» disse.
«Non è stato carino?»
«È stato meraviglioso! I capi dei soldati Grigi sono molto contenti che abbiate preso le nostre parti apertamente. Un uomo intelligente come voi, Don Rumata, che perde tempo con i baroni, quei mostri titolati…»
«Mio caro Ripat!» esclamò con condiscendenza Rumata, voltandosi per andarsene.
«Lei sembra dimenticare che dall’alto del mio lignaggio non c’è quasi nessuna differenza tra il Re e quelli della sua razza. Addio!»
Si allontanò sicuro nei corridoi, entrò senza esitazione nei vari passaggi laterali e spinse da parte le guardie senza neanche parlare. Aveva solo una vaghissima idea di come comportarsi, ma era sicuro che si trattasse di una strana coincidenza. Doveva riuscire ad ascoltare la conversazione fra i due ragni. Don Reba doveva avere delle ottime ragioni se aveva promesso una ricompensa quattordici volte maggiore a chi gli avesse portato Waga vivo.
Dalle pesanti cortine lilla sbucarono due tenenti Grigi con le spade sguainate.
«Salute a voi, amici» disse Don Rumata, mettendosi tra i due. «Il ministro è nei suoi appartamenti?»
«Il ministro è occupato, Don Rumata» rispose uno dei due.
«Allora aspetterò» disse passando fra i tendaggi. Era buio pesto, ed era impossibile distinguere qualcosa. Passo cautamente a tentoni tra le sedie, i tavoli e i candelieri di pesante ferro battuto. Poi intravide un raggio di luce impercettibile, sentì la voce tenorile di Waga Koleso che gli era familiare, e si fermò. Varie volte sentì distintamente qualcuno che respirava dietro di lui, avvolto in una nuvola di odore di aglio e di birra. Poi sentì la punta di una lancia premuta cautamente, ma senza ombra di dubbio, tra le sue scapole. «Calma, imbecille!» disse irritato ma sottovoce. «Sono io. Don Rumata».
La lancia fu ritirata. Rumata spinse una sedia verso il raggio di luce, si sedette incrociando le gambe e sbadigliò così forte da farsi sentire da tutti. Poi cominciò a osservare.
I due ragni si erano incontrati. Don Reba, tesissimo, era seduto con i gomiti sul tavolo e le dita intrecciate. Alla sua destra c’era un fascio di carte e in cima un pugnale con l’impugnatura di legno massiccio.
Il ministro ostentava un sorriso compiaciuto, anche se un po’ rigido. L’onorevole Waga era seduto su un divano e voltava le spalle a Rumata. Somigliava a un vecchio magnate che avesse passato gli ultimi trent’anni di vita recluso nella sua casa di campagna.
«Gli assassi sono cronchi, e i rompiscanchi han ritorco i nostri guarri con i loro grimi fronchi. E ci sono venti lunghi zanchi, ormai. Brollando, li paccherei proprio sul nuso, come un croppo sul crambo. Ma gli zanchi hanno un modo stranto di vrondare le cose. Ecco perché ci siamo brimbati i pronchi. È il nostro sepempio…»
Don Reba appoggiò il mento sulla mano.
«Surpendamente morrato» disse pensosamente.
Waga si strinse nelle spalle.
«Karpula è il nostro sepempio. Non mi sarei sempato che vi sareste froncato con noi. Allora, etciso?»
«Etciso» disse con decisione il ministro della Sicurezza Interna.
«E rassole» disse Waga, alzandosi in piedi.
Rumata, che aveva ascoltato perplesso quelle assurdità, vide che Waga aveva folti baffi e una barbetta grigia a punta. Un perfetto cortigiano del Re precedente.
«È stata una chiacchierata molto piacevole, Don Reba» disse Waga.
Anche l’altro si alzò in piedi.
«Ho apprezzato molto la conversazione, è stato davvero un grande piacere» disse.
«Non ho mai incontrato un uomo coraggioso come lei, caro Koleso…»
«Potrei dire la stessa cosa di lei» rispose Waga, con un’espressione un po’ annoiata.
«Sono meravigliato e orgoglioso dell’audacia del primo ministro del nostro regno».
Quindi si voltò e andò verso l’uscita, appoggiandosi pesantemente sul bastone. Don Reba non distoglieva lo sguardo dal vecchio. Sembrava perso nei suoi pensieri, e posò distrattamente la mano sull’impugnatura del pugnale. Immediatamente, qualcuno alle spalle di Rumata soffiò con tutte le forze e il lungo tubo azzurro di una cerbottana mirò il raggio di luce tra le cortine. Per un momento Don Reba rimase immobile ad ascoltare, poi si sedette di nuovo, aprì un cassetto, prese un fascio di carte e si mise a leggerle. Qualcuno sputò dietro Rumata e la cerbottana sparì. Era tutto chiaro. I ragni avevano trovato la soluzione. Rumata si alzò, pestò i piedi a qualcuno e lasciò la stanza lilla.
Il Re pranzava in un enorme salone dal soffitto alto due piani. La tavola era stata preparata per cento persone, tra cui Don Reba, personaggi di sangue reale (una ventina di ghiottoni e ubriaconi di sangue blu), vari maestri di cerimonia, alcuni membri dell’aristocrazia locale che per tradizione erano suoi ospiti, tra cui Rumata, alcuni baroni di passaggio con quelle zuccone delle mogli, e all’estremità più lontana, la piccola nobiltà, che era stata invitata per speciali privilegi o anche senza. L’ultimo gruppo di ospiti riceveva, insieme agli inviti, il numero del posto a tavola e una serie di istruzioni: «Sedete tranquilli; il Re non ama vedere persone che si dimenano sulla sedia. Tenete le mani appoggiate sulla tavola; il Re non ama vedere persone che tengono le mani sotto la tavola. Non voltatevi; il Re non ama che gli si voltino le spalle». A ogni pasto divoravano enormi quantità di cibi raffinati, ingoiavano fiumi di vino e frantumavano montagne di piatti di porcellana di Estor. In un suo rapporto, il Tesoriere una volta aveva scritto che per un pranzo alla tavola reale si spendeva addirittura quanto all’Accademia Soaniana delle Scienze in sei mesi.